Giovedì 22 aprile 2010 – Anno 2 – n° 120
Si pensava che, vista l’enfasi degli annunci, la poderosa controffensiva di Luciano Moggi sarebbe almeno riuscita a dimostrare, craxianamente, che “così facevan tutti”. Invece manco quello. Anzi tutto il contrario. Chi legge le 75 fantasmagoriche telefonate che dovevano ribaltare Calciopoli scopre che molti dirigenti di molte squadre (persino il Chievo) parlavano con designatori e arbitri. Ma parlare non è reato né illecito sportivo (è illecito sportivo da dopo Calciopoli): dipende da cosa si dice e si fa. Moggi con la sua corte di vassalli, valvassori e valvassini più o meno forzati (Milan, Fiorentina, Lazio, Reggina) condizionava designazioni, arbitraggi, moviole e campionati. Gli altri no. Infatti la giustizia sportiva e quella penale han colpito quelle cinque società e non le altre (ora l’inchiesta della Figc stabilirà se ne manca qualcuna). Se chi ha pubblicato le 75 intercettazioni sapesse anche leggerle, ne trarrebbe l’unica conseguenza possibile: bene han fatto il colonnello Auricchio e i pm Narducci e Beatrice a escluderle dal processo, visto che non contengono notizie di reato. Infatti Moggi le ha tirate fuori solo dopo cinque anni, per buttarla in caciara sui giornali, non certo per squisite ragioni giuridiche. La sua fortuna è che si occupano del caso molti giornalisti sportivi che, quando non sono compagni di merende di Lucianone (in aula si abbracciano e si danno di gomito), non sanno distinguere un reato da un paracarro. Ma anche noti tuttologi che allestiscono penosi teatrini con tanto di magliette, bandierine, raganelle e tricchetracche: tipo i soffietti a Lucianone firmati sul Corr iere da Ostellino e i duetti fra Battista (“Visto dal bianconero”) e Severgnini (“Visto dal nerazzurro”). Come se un giornalista, solo perché parla di calcio, potesse ridursi a trombetta della squadra del cuore, a prescindere dai fatti. I fatti dicono che Moggi telefonava ai designatori per ordinare arbitri à la carte, come al ristorante, per le coppe e addirittura per le amichevoli, mentre per il campionato dettava le griglie per tener lontani i (rarissimi) fischietti sgraditi. E veniva puntualmente accontentato. Se, come sostiene il clan, la cupola non esisteva o non contava, perché Moggi chiedeva un arbitro e quello puntualmente arrivava? Perché il ministro Pisanu telefonò a Moggi per salvare la Torres (e la Torres fu salvata)? Perché Della Valle chiamò Moggi per salvare la Fiorentina (e la Fiorentina fu salvata, con tanti saluti al Bologna)? Perché Moggi procurava carte sim svizzere agli arbitri per parlare lontano da orecchi indiscreti? Perché è stato condannato dal Tribunale di Roma a un anno e sei mesi per violenza privata nel caso Gea, la cupoletta dei figli di papà che comandava sul calcio? Perché ha minacciato un testimone, l’ex direttore della Roma Franco Baldini, in pieno tribunale? Perché ordinava ai giornalisti cosa scrivere e non scrivere, dire e non dire in tv, addirittura come nascondere gli errori degli arbitri amici ed enfatizzare quelli dei nemici? Perché chiamava minaccioso i giudici disciplinari dei procuratori pallonari perché salvassero suo figlio da sacrosanta condanna? Perché, quando il presidente del Palermo Zamparini (l’ha raccontato lui) voleva l’arbitro Rizzoli, Moggi alzò il telefono e a Palermo arrivò Rizzoli? Si dirà: anche Facchetti chiese al designatore Bergamo che Collina arbitrasse Inter-Juve. A parte il fatto che Collina lo nomina Bergamo e non Facchetti, pochi sanno come andò a finire: fu designato Rodomonti che negò un rigore all’Inter e ne diede uno alla Juve. L’Inter contava come il due di picche: infatti la segretaria dell’associazione arbitri, Mariagrazia Fazi, moggiana di ferro, istruiva Bergamo su come intortare Facchetti fingendo di “stare con tutti, non come dicono che tu stai solo con Juve e Milan”. Per tenerlo buono. La telefonata conferma quel che si era sempre saputo, ma prima che Moggi la facesse pubblicare era sconosciuta. Si difende talmente bene da far sorgere un dubbio che abbia dietro Taormina o Ghedini?
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