Malcostume mezzo gaudio

Mercoledì 18 agosto 2010 – Anno 2 – n° 219

Malcostume mezzo gaudio

Hanno arrestato il ladro più stupido del mondo. L'hanno preso a Torino, la notte di Ferragosto. Giuseppe C., 38 anni mal portati, usciva dall’ospedale Molinette con un sacco nero in spalla, come quelli della Banda Bassotti, mancava solo il numero di serie. Quando il vigilante l’ha notato, e non poteva non farlo, ha tentato la fuga. Ma un po’ per la pancia prominente, un po’ per gli occhiali a fondo di bottiglia e l’inseguimento è durato pochi metri. Subito sequestrato il prezioso bottino: una tastiera, un monitor e un cavo di computer. Il giudice, dopo una notte in guardina, l’ha mandato a casa con obbligo di dimora in attesa del processo, perché “la pericolosità dell'imputato non può essere ritenuta particolarmente ele vata”. Peccato, ancora poche ore e avrebbe ricevuto la visita dei cento parlamentari che han trascorso il Ferragosto nelle carceri, alcuni per constatarne le condizioni disumane, altri per imparare la strada e fare un po' di pratica. C’erano, fra gli altri, gli on. Cosentino e Dell’Utri, entrambi destinatari nel tempo di un mandato di cattura rispettivamente per storie di camorra e di mafia, entrambi coperti dal Parlamento. L’altro giorno, con grave sprezzo del pericolo, sono entrati in cella, poi inspiegabilmente li hanno fatti uscire. Difficile spiegare a Giuseppe perché lui, per un monitor, una tastiera e un cavo, sia finito in gattabuia mentre, per dire, un Verdini accusato di avere svaligiato una banca per 60 milioni “p re s t a t i ” ad amici o addirittura a se stesso, sta in Parlamento e coordina il partito di maggioranza denominato PdL, e soprattutto che significhi la L. Ma questo è il bello dell'Italia. Non importa se uno ruba: il segreto è rubare molto, moltissimo. Nel 2006 l’imprenditore, anzi prenditore Luciano Gaucci fuggì a Santo Domingo inseguito dalla Guardia di Finanza per il crac del Perugia Calcio (solo all’Erario la società doveva 35 milioni, in compenso pagava l’ingaggio al figlio di Gheddafi, noto fuoriclasse). Al posto suo, lasciò che arrestassero i suoi due figli, Alessandro e Riccardo. Un vero gentleman. Rientrò in patria due anni più tardi, dopo aver patteggiato a distanza 3 anni per bancarotta fraudolenta. Si pensava che sarebbe andato a nascondersi. Invece nelle ultime settimane, da quando è partito il linciaggio di Gianfranco Fini, compagno della sua ex fidanzata, l'avvenente prenditore è gettonatissimo: rilascia un paio d’interviste al giorno ai tg e agli house organ del Banana, dove spara a zero contro Elisabetta, accusata fra l'altro di essersi messa con lui “per interesse”. Notizia sconvolgente: si pensava che la ragazza fosse caduta ai suoi piedi rapita dalla sua bellezza statuaria da bronzo di Riace. Il Giornale poi, sempre per fare la morale a Fini, ha riesumato un altro magister elegantiarum, Giuseppe Ciarrapico detto Peppino er Ciarra, che definisce la storia della casa a Montecarlo “brutta brutta brutta”. A suo dire “Fini ha irrimediabilmente aggravato la sua posizione” e “chissà che non abbia altri scheletri nell'ar madio”. Almirante aveva previsto tutto: “Negli ultimi mesi si confidò col sottoscritto: ‘Peppino, io di Fini non mi fido’. . .”. Ce n’è abbastanza per invocare le dimissioni da presidente della Camera, perché la vicenda monegasca “è come rubare alla cassetta della ch i e s a ”. Eppoi Fini “ha rinnegato i valori della destra”, fortunatamente custoditi dal Ciarra. Il quale ha visitato più volte le patrie galere, ma come detenuto. E, oltre a un’inchiesta in corso per truffa allo Stato per vagonate di milioni incamerati dalle sue “c o o p e ra t i ve gior nalistiche”, vanta varie condanne definitive, fra cui una a 3 anni per il crac della Casina Valadier, una a 4 e mezzo per il crac dell'Ambrosiano e persino una per violazione della legge che “tutela il lavoro dei fanciulli e degli adolescenti”. Da anni i creditori dell'Ambrosiano tentano di pignorargli qualcosa, ma non ci riescono perché il nostro risulta residente in una camera con servizi annessa a un capannone a Montecassino. Infatti è senatore della Repubblica. Poi dicono che non c’è selezione della classe politica.

Tirate lo sciacquone

Martedì 17 agosto 2010 – Anno 2 – n° 218

Tirate lo sciacquone

Sullo sfondo del Water(closed)gate all’italiana, anzi alla monegasca, fabbricato contro Fini, si comincia a sentire un gorgoglìo di sciacquone. A tirare la catena ha provveduto la Banca d’Italia, contestando al triumviro Verdini un conflitto d’i n t e re s s i su 60 milioni riciclati dalla sua banca del buco, una cosina che costringe l’informazione (dunque non il Tg1 di Minzolingua) a uscire da tinelli e mobilifici e tornare a parlare di cose serie. Ma ora si apre pure una guerra per bande fra i signorini grandi firme della corte arcoriana: Belpietro contro Feltri. Persino Prettypeter sente puzza di bruciato, o forse di qualcos’altro, nella “pistola fumante” sfoderata da Littorio per abbattere Fini: la testimonianza dell’eroico arredatore sulla cucina Scavolini destinata, secondo voci che nemmeno lui conferma, a Montecarlo. L’autorevole segugio bresciano (non bergamasco, come erroneamente abbiamo scritto domenica, del che ci scusiamo con gl’incolpevoli abitanti di Bergamo, che hanno già i loro problemi con Feltri e Calderoli) teme che l’eroico arredatore, dimessosi con la moglie dal mobilificio per parlare col Giornale, sia una reincarnazione di Igor Marini, il peracottaro che doveva dimostrare le attività tangentizie di Prodi nel caso Telekom Serbia sul conto svizzero “Mor tadella”: “Temo che qualcuno sia all’opera per nascondere i guai di Fini, i quali sono seri, anzi serissimi… Non vorrei che i professionisti della polpetta avvelenata stessero provando a rifilare bidoni ai giornali impegnati in un’operazione di trasparenza, facendoli scivolare su un dettaglio per coprire di ridicolo ciò che ridicolo non è…. Suggerisco di raddoppiare i c o n t ro l l i …”. Ma anche il Geniale sembra virare lontano da mobili e cucine. Da un editoriale del vicedirettore dal cognome francamente eccessivo, Massimo de’ Manzoni, si intuisce che alla storia della Scavolini recapitata da Roma a Montecarlo non crede più nemmeno il quotidiano berlusconiano e ora prepara la ritirata con un’ipotesi davvero succulenta: “All’ultimo momento Fini e signora hanno cambiato idea, dirottando la cucina in un’altra magione”, forse perché s’erano “accorti che era troppo grande per l’appartamento di Boulevard Princesse Charlotte”. Fantastico: i due ordinano nel mobilificio romano una cucina per l’alloggio di Montecarlo, ma non portano con sé le misure e vanno a spanne, poi scoprono di averla presa troppo grande e, mentre quella è già in viaggio e corre sulle sue rotelline alla volta della Costa Azzurra, la richiamano indietro per “dirottarla in un’altra magione”. Così la Scavolini, dotata di retromarcia e servosterzo, fa inversione a U e se ne torna mestamente in patria, non prima di aver protestato coi proprietari per la mancata villeggiatura monegasca. Tutto molto credibile. Del resto chi seguita ad acquistare il Giornale, riuscendo a leggerlo e addirittura a restare serio dopo le balle su Telekom Serbia, Mitrokhin, Di Pietro, Ariosto, Veronica, Boffo, dev’essere dotato di stomaco forte e squisito sense of humour. Ora dovrà bersi le storia della cucina che vaga per l’Europa in cerca di approdo sicuro e del supertestimone che si licenzia per amore di verità. Poi, con comodo, Fini passerà alla cassa dal povero Paolo B., che peraltro è abituato. Quando Feltri dipinse per due anni Di Pietro come un tangentaro e poi gli chiese scusa perché non era vero niente (“Caro Di Pietro, ti stimavo e non ho cambiato idea”), Paolo gli staccò un assegno da 700 milioni. Poi il Geniale ricominciò, accusando l’ex pm di trafficare con case e finanziamenti pubblici. Balle pure quelle: altro assegno da 244 mila euro. Appena Littorio lancia una campagna, Paolo si fa il segno della croce e prepara i contanti. E’ il momento di stringersi con un comitato di solidarietà intorno al p ove r ’ometto, al quale, quando la portinaia voleva sapere di sua madre, domandava: “Dottor Paolo, come sta la mamma del dottor Silvio?”. E’ una vita che, quando gli va male, finisce in galera al posto del fratello e, quando gli va bene, scuce. Ora basta. Nessuno tocchi Paolino.

Water( closed) gate

Domenica 15 agosto 2010 – Anno 2 – n° 217

Water( closed) gate

Il capo dello Stato, non si sa bene a quale titolo, intima ai giornali di “cessare la campagna gravemente destabilizzante sul piano istituzionale volta a delegittimare il presidente di un ramo del Pa r l a m e n t o ”. Eh no, signor Presidente. Anzitutto nessuno, men che meno lei, può decidere cosa devono scrivere o non scrivere i giornali. L’abbiamo detto l’estate scorsa, quando tentò di salvare la faccia di B. invocando una “t re g u a ” alle rivelazioni sui casi Noemi e D’Addario. Lo ripetiamo oggi che interviene in difesa di Fini. Anche perché, arrivati a questo punto, non ci si può fermare sul più bello. Ora che Il Giornale ha pubblicato la fattura d’acquisto di una cucina Scavolini (4.523,41 euro Iva esclusa) al mobilificio Castellucci, sull’Aurelia, da parte della compagna di Fini, i casi sono due: o ha ragione Feltri nel sostenere che la cucina era destinata all’alloggio venduto da An e affittato dal quasi-cognato di Fini, dunque Fini ha mentito; o ha ragione Fini nel sostenere che quella cucina fu acquistata per un altro alloggio occupato da lui e dalla sua compagna, dunque Feltri ha mentito (e non sarebbe la prima volta). In attesa di sapere chi dei due deve andarsi a nascondere, sappiamo che, diversamente da ministri, sottosegretari e dirigenti della Protezione civile, tutti scrocconi che si facevan pagare tutto da Anemone, Fini e signora la cucina se la son pagata da sé. E nemmeno di gran pregio, visti il prezzo e il negozio non proprio da Vip. Insomma quella coppia di nababbi che ci è stata spacciata dagli house organ della ditta (memorabile la foto di Chi ch e immortala il cognatino con indosso nientemeno che “una polo Ralph Laurent”, roba da Sardanapalo) è una balla. Resta il dubbio che sia una coppia di idioti che, per arredare un alloggio a Montecarlo, comprano la cucina sull’Aurelia, spendendo almeno altrettanto in spedizione. Ma che soprattutto, essendo mossa soltanto dal vil danaro, abbandona la reggia del politico più ricco del mondo, dove girano soldi a palate, dove anche l’ultima squinzia diventa milionaria scrollando un po’ le tette, e dove trovano un posto al sole persino Stracquadanio e Capezzone. In attesa di svelarci chi è il bugiardo, però, la storia di Montecarlo ci ha già regalato due grandi soddisfazioni. La prima: l’Italia, dopo tanto cercare, ha il suo candidato al Pulitzer. Tenetevi forte: è Maurizio Belpietro. Ieri, su L i b e ro (anzi, Occupato), Mento nel Mento ha svelato di esser “cresciuto nel mito dello scandalo Watergate”, ispirandosi ai “due colleghi più famosi del mondo, Bob Woodward e Carl Bernstein, i quali fecero un’inchiesta a puntate che si concluse con la richiesta al presidente degli Stati Uniti di fare le valigie”. Insomma si ritiene un “cane da g u a rd i a ” e, “fiutata una pista, non l’abbandona finché non ha spolpato l’osso”. Si spera, per il suo bene, che Woodward e Bernstein non leggano L i b e ro , altrimenti nel sentirsi definire “colleghi” da lui potrebbero metter mano alla querela. Anche perché, diversamente dal segugio bergamasco, scrivevano su un giornale davvero libero, il Washington Post, non avendo come editore un politico nemico di Nixon (negli Usa non si usa). Invece Prettypeter riceve lo stipendio da un senatore del Pdl. Più che un cane da guardia, un cane da riporto. O da compagnia. La seconda soddisfazione ce la regala il Giornale, edito dalla famiglia B. I suoi segugi, Bob Chiocci e Carl Malpica, hanno scovato un arredatore di cucine componibili, il quale rivela di aver sentito dire al mobilificio Castellucci (“ma la certezza non posso ave r l a ”) che la Scavolini era destinata a Montecarlo. Il ragazzo “fino a due giorni fa lavorava al centro arredamenti sull’Au re l i a ” con la moglie. Ma poi, per uscire dall’anonimato col Giornale, s’è addirittura dimesso e la moglie pure, restando entrambi disoccupati e condannandosi a una vita di stenti. Si può immaginare un atto di eroismo più temerario di questo, sull’altare della Verità? I due giovanotti meritano un premio. Lei un posto a Mediaset, o alla Rai (fa lo stesso). Lui il ministero dello Sviluppo Economico.

Il Tinello delle Libertà

Sabato 14 agosto 2010 – Anno 2 – n° 216

Il Tinello delle Libertà

Mentre infuria l’appassionante dibattito sul tinello di casa Tulliani (pare che i segugi del Giornale abbiano scovato una pantegana anonima pronta a testimoniare di aver visto Fini fuggire dall’alloggio monegasco con un rotolo di carta igienica sotto la giacca), proseguono le ricerche di eventuali tracce di vita nel Pd. Per ora, invano. Persino i finiani, alla buon’ora, rivalutano Montanelli e rievocano i capitoli più indecenti della biografia berlusconiana (cioè tutti): truffa all’orfana, fondi neri, società offshore, Mangano & Dell’Utri. Tacciono solo sulle leggi ad personam, perché quelle le han votate anche loro. I più arditi proferiscono addirittura un’espressione proibita anche a sinistra, “conflitto d’i n t e re s s i ”. In ritardo di ve n t ’anni, sono comunque in anticipo sul Pd, che in quelle losche faccende non s’è mai voluto impicciare, convinto (da B.) che ricordare all’opinione pubblica i crimini dell’avversario non paga, anzi è sintomo di una grave malattia denominata (sempre da B.) ora “giustizialismo”, ora “antiberlusconismo”, ora “demonizzazione”, ora “odio”. Infatti il Partito dell’Amore non ha mai fatto altro che rinfacciare a li avversari i loro crimini, talvolta veri, più spesso inventati (da Telekom Serbia in giù). E, quando l’ha fatto, ha sempre avuto partita vinta. Intanto i suoi presunti avversari – che, per rinfacciargli i suoi crimini, hanno solo l’imbarazzo della scelta senza dover inventare nulla – si guardavano bene dal raccontarli. E han collezionato più fiaschi di una cantina sociale (però insistono). A parte Di Pietro, hanno lasciato a Bossi (fra il 1995 e il ‘99, prima della retromarcia su Arcore) e oggi ai finiani il monopolio di quel racconto. Che si rivela efficacissimo perché, arrivando da politici e non da giornalisti, riesce a bucare il muro dell’omertà televisiva se Bocchino, Granata, Briguglio ricordano come B. comprò (si fa per dire) la villa di Arcore, Craxi, la Guardia di Finanza, Mills, la sentenza Mondadori, quel che dicono finisce nei pastoni politici dei tg e nemmeno Minzolingua può farci nulla, visto che nei tg l’informazione politica è appaltata ai politici. Immaginiamo quanti milioni di italiani saprebbero chi è B. e com’è diventato B. se i vari D’Alema, Veltroni, Fassino, Rutelli, Marini, Fioroni, Bersani, Letta-Letta junior, Bertinotti e simili avessero usato gli spazi autogestiti in tv per raccontare le gesta del Caimano, anziché emettere mortiferi blabla sulle Grandi Riforme Condivise e altre menate. Infatti i pittbull di Arcore si sono scatenati contro Fini da quando ha osato parlare di “legalità”, che è come evocare la corda in casa dell’impiccato o sventolare una treccia di aglio dinanzi al vampiro. Il miglior antidoto al veleno berlusconiano. Peccato che finora nessuno, o quasi, l’abbia usato. E quei pochi che lo usavano venivano tacciati di ossessione antiberlusconiana e altre baggianate. Così oggi basta dire una cosa vera su B. e subito salta su Cicchitto ad ammonire: “Parlate come Trava glio”. E Pigi Battista a mettere in guardia Briguglio che, evocando le off-shore berlusconiane, parla come “Travaglio, Cordero e Grillo”. Non essendo né l’uno né l’altro giornalisti (uno è un piduista, l’altro non si sa bene cosa sia), questi signori non sono minimamente sfiorati dall’idea di verificare se le cose dette da Briguglio & C. siano vere o false. Altrimenti scoprirebbero che sono vere e dovrebbero spiegare tante cose. Per esempio, perché mai il Pompiere della Sera chiede (giustamente) a Fini di fare chiarezza sul tinello monegasco e non ha mai chiesto a B. di fare chiarezza sui suoi amici mafiosi. E perché, a proposito del linciaggio di Fini, non parla di “a n t i fi n i s m o ”, "giustizialismo”, “demonizzazione”, “odio”. Al massimo invoca una “t re g u a ”, come se la partita fra verità e bugie potesse finire pari e patta. In fondo i pompieri son contenti così: sennò poi tocca tornare a parlare di cose serie, tipo P2, P3, cricca, Cosentino, trattative e stragi di mafia, o tipo Dell’Utri che va a visitare i carcerati per evitare di diventarlo anche lui. Per carità. Molto meglio il tinello di casa Tulliani.

Fini giustifica i mezzi

Giovedì 12 agosto 2010 – Anno 2 – n° 214

Fini giustifica i mezzi

Come racconta l’ex avvocato di Luciano Gaucci, a maggio un suo collega che lavora per l’ex presidente del Perugia ma anche per B. ramazza le carte della causa civile tra il cliente e l’ex compagna Elisabetta Tulliani. Carte che, al momento opportuno (una settimana fa, all’indomani della cacciata di Fini dal Pdl), finiscono sul Giornale della famiglia B. Il copione è lo stesso collaudato negli anni contro chiunque abbia osato mettersi di traverso sulla strada di B.: Di Pietro e gli altri pm del pool di Milano, Ariosto, Bossi, Veronica, D’Addario, persino Casini e Boffo. Talvolta le notizie sono vere ma insignificanti, però opportunamente pompate, manipolate e decontestualizzate diventano enormi. Altre volte si mescola il vero al falso. In certi casi, alla disperata, s’inventa e basta. Il dossier Montecarlo usato contro Fini ricorda il dossier Gorrini usato contro Di Pietro per farlo dimettere dal pool nel ’94 e trascinarlo sotto processo a Brescia nel ’95. I fatti sono veri: Di Pietro accetta un prestito da un amico, poi lo restituisce; Fini fa vendere un alloggetto ereditato da An che finisce a due società offshore, una delle quali l’affitta al “cognato” di Fini. Entrambe le faccende non costituiscono reato (ma apposite denunce innescano indagini della magistratura, destinate fra qualche mese all’archivio), né investono denari o cariche pubbliche. Ma sono leggerezze: un pm non deve accettare prestiti, un politico non deve consentire a membri della propria cerchia familiare di beneficiare del proprio potere. Giusto, dunque, che la gente conosca i fatti. Che però vanno misurati col metro della loro gravità intrinseca (scarsa) e del contesto in cui avvengono (una classe politica inquinata da mafie, corruzioni e malversazioni di ogni genere). Una pulce dovrebbe restare una pulce e un elefante un elefante. Ma in Italia l’elefante il padrone dell’informazione, così le pulci diventano elefanti e gli elefanti pulci. Ieri il Corriere dedicava le pagine 1, 8, 9, 10, 11 a Fini & cognato, confinando a pagina 25 una notizietta da niente: un appunto di Vito Ciancimino, consegnato ai pm dalla vedova, su finanziamenti di Berlusconi a Provenzano (titolo: “Mafia, Ciancimino jr tira in ballo il premier”, così è impossibile capire che si tratta di un documento, non di parole al vento). E’ la miglior prova su strada del conflitto d’interessi e del perché nessuno ha mai osato né mai oserà estirparlo. Chi resta sotto l’ombrello protettivo di B. può fare qualunque cosa, anche la più terribile, e godrà sempre di totale ed eterna protezione. Capiterà che un raro giornale estraneo alla banda ne sveli le malefatte, ma esse resteranno confinate su quelle pagine e ben presto evaporeranno: nessuno le riprenderà per farne un caso. Se invece uno s’azzarda ad allontanarsi dall’ombrello, i cecchini sparano a vista. Se il tizio ha una pagliuzza nell’occhio, la trasformano in trave. Se non ha pagliuzze, gl’inventeranno una trave. Si cerca un personaggio in rovina, dunque disperato (ieri Gorrini e D’Adamo, ora Gaucci), gli si fa balenare un futuro radioso sotto l’ombrello, e non c’è neppure bisogno di spiegargli cosa ci si attende da lui: lo capisce da solo. I giornali e i tg della ditta (quasi tutti) rilanciano le sue accuse come un sol uomo, anche perché l’informazione politica è ridotta a collage di dichiarazioni di politici, e tutti i politici di B. hanno ordine di ripetere sempre le stesse accuse fino alla noia. Giornali e tg non della ditta, per non sfigurare, le riprendono, magari tentando di riportarle alle giuste dimensioni, ma vengono subito tacciati di censura, con inviti ai loro lettori a non acquistarli e gli inserzionisti a ritirarne la pubblicità. La solita Procura di Roma, che dorme sonni profondi sulle inchieste a carico di B. (Trani), si scatena con indagini, blitz, rogatorie anche se non si capisce bene dove stia il reato. E subito gli house organ pronti a titolare: “La Procura indaga”. Ergo – sottinteso – c’è del marcio in casa Fini. Se invece una procura indaga su evidenti reati di B., è la prova che B. è perseguitato, dunque innocente.

Tor Crescenza

Sabato 7 agosto 2010 – Anno 2 – n° 210

Tor Crescenza

Aveva promesso di “rinunciare alle vacanze per mettere mano al partito”. Poi, si sa, le mani vanno un po’ dove vogliono. E così B. viene descritto in piena fregola estiva mentre riceve truppe mammellate a getto continuo nel castello affittato a Tor Crescenza. Scelta più che comprensibile, vista la toponomastica beneaugurante: per la torre, ma soprattutto per la crescenza. Del resto la prospettiva di trascorrere l’estate in compagnia di Cicchitto, Bonaiuti, Capezzone e magari pure Stracquadanio, per non parlare dei triumviri Verdini, La Russa e Bondi è talmente mortifera che non la si augura al peggiore nemico. Trattasi del trust di cervelli che, quando non mettevano le mani sull’argenteria, convincevano il Capo a epurare Fini e i finiani: “Dai retta a noi, Silvio, sono quattro gatti”. S’è poi scoperto che erano 44 e senza di loro il governo ha perso la maggioranza. Un erroruccio di calcolo, ma B. non l’ha preso benissimo: il Giornale di famiglia racconta “più di una tensione, quando il premier ha messo sul tavolo il cambio dei tre coordinatori con il ticket Alfano-Gelmini-Meloni (un cervello in tre, quello della Meloni, ndr). Un cambio che Berlusconi era più che deciso a fare perché è da tempo scontento della gestione del partito e gli ultimi sondaggi confermano che i tre non sarebbero amatissimi dall’e l e t t o ra t o ”. Ma va? Gli elettori non apprezzano Verdini, La Russa e Bondi? Chi l’avrebbe mai detto. Ci voleva proprio un sondaggio. Dunque B. vuol cacciarli in blocco. Ma – rivela il Geniale – “apriti cielo: tanto ha urlato La Russa che alla fine il premier avrebbe provato a ripiegare: lasciamo Ignazio e sostituiamo gli altri. A quel punto è stato Verdini a farsi sentire e così Berlusconi ha deciso di aggiornare la p ra t i c a ”. Purtroppo, al fumetto, mancano le nuvolette con le parole. Sarebbe interessante conoscere il dettaglio degli ululati di Gnazio e di Denis (“Ahò, si me cacci quelli me carcerano...”). L’unico di cui non sono pervenute reazioni è James Bondi: forse perché, pronto all’e s t re m o sacrificio, aveva anticipato i desideri dell’Amato flagellandosi col frustino come il fratacchione de “Il nome della Rosa”; o forse perché già recluso nelle segrete del castello a causa della metamorfosi licantropica. B. è talmente malmesso da preferire, all’attuale gruppo dirigente del Pdl, il Cepu. Non è uno scherzo: all’ultimo summit – riferisce sempre il Geniale – “era presente la new entry Francesco Polidori, meglio noto come Mr Cepu, che ha portato al premier uno studio statistico su come il partito dovrebbe riorganizzarsi sul territorio e si dice pronto a mettere a disposizione del Pdl le 120 sedi Cepu sparse per l’Italia”. Il tutto per “una campagna elettorale alla Obama”. Manca soltanto Obama, ma per sopperire si darà fondo alle riserve di fard. Nell’attesa il premier ha congedato i suoi Fantozzi e Tafazzi (“ci vediamo dopo ferragosto”) per dedicarsi a pratiche più utili e dilettevoli. Dagospia ammicca spesso alle cenette apparecchiate a Tor Crescenza dall’attempato gagà brianzolo per 25-30 ragazze alla volta, onorevoli o quasi, che passano a rincuorarlo nell’ora della prova. Il nuovo maniero di Stato garantisce maggiore riservatezza rispetto a villa Certosa, Palazzo Grazioli e villa San Martino. Così le cronache mondane registrano un viavai di “pulmini neri coi vetri abbuiati” al posto dei troppo vistosi ponti aerei di gnocca aviotrasportata o sbarcata via mare nelle passate estati sarde. Lì invece è tutto più discreto: a un segnale convenuto il ponte levatoio, a n ch ’esso beneaugurante, si alza e si abbassa per far passare i festosi pulmini. James, all’ingresso, smista il traffico muliebre in entrata e in uscita e indirizza le pupe al salone delle feste, dove l’anziano latrin lover le accoglie abbigliato comme il faut: pare che, al posto del tradizionale accappatoio bianco, indossi una più intonata armatura medievale, perfettamente oliata e funzionante. Utilissima, fra l’altro, come legittimo impedimento alla prossima convocazione in tribunale.

Ferie d’agosto

Venerdì 6 agosto 2010 – Anno 2 – n° 209

Ferie d’agosto

Giorno dopo giorno prende finalmente forma l’elettrizzante alternativa al regime di B.: quella che Casini definisce “nuova area di responsa bilità”, cioè l’Armata Brancaleone Fli-Udc-Mpa-Api sorta intorno alla coraggiosa astensione su Caliendo perché – spiega Piercasinando – “rifiutiamo il giustizialismo, ma non minimizziamo la questione morale”. Forse voleva dire molare, essendo lui il leader dell’Udc, in cui siedono i Cuffaro e i Cesa, ma anche Enzo Carra (ovviamente pregiudicato) e Renzo Lusetti (indagato per le sue affettuosità con Romeo, di cui era un po’ la Giulietta in concorrenza con Bocchino); e financo Peppe Drago, appena decaduto da deputato perché definitivamente condannato per peculato, avendo svaligiato la cassa dei fondi riservati della Regione Sicilia quando ne lasciò la presidenza: il tipo ideale per sventolare il vessillo della legalità. Poi c’è il governatore attuale Raffaele Lombardo, leader Mpa, che è solo indagato per mafia e si porta appresso collezionisti di poltrone come Misiti e Latteri e un tal Roberto Commercio, un nome una vocazione. Per l’Api rutelliana ha preso la parola un altro frugoletto della politica, Pino Pisicchio, che ha all’attivo più tessere di partiti che capelli in testa e cammina a fatica con la cadrega incollata dietro. Poi ci sono anche i latitanti, tipo l’avvocato Consolo, di cui si son perse le tracce da una settimana: teoricamente finiano, nel giorno della prova coraggio – l’astensione su Caliendo – si è dato; forse non se la sentiva di sbilanciarsi con una scelta così netta, forse ha solo bisogno di essere consolato, forse è disperso da qualche parte in stato confusionale (chiunque avesse notizie di lui è pregato di segnalarle alla redazione di Chi l’ha visto?: la famiglia promette di trattarlo bene e di riprenderselo come nuovo). A certificare il nuovo che avanza, fa capolino il terzo gerundio di queste ferie d’agosto, dopo Caliendo e Piercasinando: Ferdinando Adornato. Già comunista, poi editorialista del gruppo Espresso, poi nuovista con Alleanza Democratica, poi direttore di Liberal all’insaputa dei lettori, poi deputato forzista all’insaputa degli elettori, attualmente –mentre scriviamo – è casinista degno approdo per un uomo che voleva cambiare il sistema ma poi il sistema ha cambiato lui. Ora s’aggira in questa compagnia della buona morte accompagnata da una colonna sonora fatta di rumori di ganasce, digrignar di mandibole, sferragliare di forchette, flebo, stampelle, protesi, cateteri e cinti erniari. E questo è quanto ci riserva l’avvenire, quando finalmente ci libereremo di B., forse per evitare che la gente si entusiasmi troppo. Rallegrano, nel frizzante quadro della politica italiana, la freschezza del dibattito e la reattività dei protagonisti, segnali tipici di una società giovane e proiettata al futuro. Casini incontra Bossi nel cortile di Montecitorio e giovanilmente lo saluta “Ehi, Umbertino!”. Quello risponde col gesto delle corna e l’altro – annotano i cronisti – sorride compiaciuto: poteva pure capitargli il dito medio, perché l’Umberto ormai conosce due sole risposte, entrambe digitali. Angelino Jolie proclama: “Sui princìpi non ci si astiene”. Infatti lui sui princìpi vota no. Renato Farina, il deputato-spione, difende appassionatamente Caliendo (sebbene Caliendo l’avesse pregato in ginocchio di non farlo) e lo rovina per sempre definendolo “uomo esemplare accompagnato da stima universale” (l’altro giorno, per dire, si parlava un gran bene di Caliendo in un igloo dell’Alaska). Molto lucido pure Cicchitto: riposto il cappuccio a causa del caldo, attribuisce il crollo del Pdl a un complotto di De Benedetti. Meno male che, a fare chiarezza, c’è il Pd. Bersani dice sì a un governo Tremonti, poi smentisce, poi Enrico Letta (non Gianni, che odia Tremonti) smentisce la smentita. Fioroni invoca “l’accordo col Terzo polo per vincere”. Livia Turco, sempre per vincere, vuole “offrire la candidatura a premier a Casini”. Scusate, ragazzi, ma perché non offrirla direttamente a B.? Capace che accetta. E con lui si vince facile.

Lo stiamo perdendo

Giovedì 5 agosto 2010 – Anno 2 – n° 208

Lo stiamo perdendo

Vogliono portarci via Bondi, James Bondi. L’omino di burro che si scioglieva al cospetto del Capo ora appare duro, ritto e gelido come un pezzo di ghiaccio. Il pallore gonfiato che arrossiva come pudica verginella in fiore al solo sfiorare il suo Sire ora appare sgonfio eppure tronfio. Il vate stilnovista che poetava in rime baciate sciogliendo endecasillabi “A Silvio” e financo odia Cicchitto, peana a Elio Vito ed elegie a Giuliano Ferrara, è passato decisamente alla prosa e verga violente invettive contro i giornali a suo dire troppo morbidi verso il traditore Fini, dettando addirittura i temi e i titoli che la stampa dovrebbe dedicare al fedifrago. Emerge insomma l’inquietante e insospettato lato B dell’efebico pacioccone che abbiamo imparato a conoscere e ad amare in questi anni. Il servo felice che scattava all’impiedi e sull’attenti appena il ducetto irrompeva nelle riunioni forziste ed esalava con un fil di voce “Scusi, presidente, se parlo in sua presenza”, che entrava in coma appena il padrone si buscava un raffreddore, che faceva lo sciopero della fame non appena il centrosinistra minacciava (ovviamente per finta) una legge sul conflitto d’interessi facendo scudo col suo corpo a quanto B. ha di più caro (i soldi) perché “nei momenti di più aspra contrapposizione fra la sinistra e Berlusconi io devo mettere il mio corpo in mezzo” e “lui mi dà del tu ma io del lei, però dentro il mio cuore il lei si trasforma in tu”, ha messo su una ferocia padronale che sgomenta. È la sindrome di Cane di paglia, che attizza il quieto e pacioso borghesuccio Dustin Hoffman e lo trasforma in una terrificante canaglia assetata di sangue. O quella descritta dal film di John Landis, Un lupo mannaro americano a Londra, dove un tranquillo giovanotto morso da un lupo in Scozia diventa a poco a poco un licantropo. Ecco: l’altra sera James Bondi ha visitato il suo spirito guida nel castello di Tor Crescenza e, in quella torrida notte di plenilunio, ha dato i primi segni dell’agghiacciante metamorfosi: i dentini da latte diventavano zanne puntute e sanguinolente, le unghiette rosee si mutavano in artigli, il capino implume e le tettine candide e turgide già descritte – secondo i maligni – da una scrittrice dilettante barese si rivestivano, come pure il corpo glabro, di una moquette di inequivocabile peluria di setole scure. Più che un uomo, un pennello Cinghiale. Dell’or renda trasformazione aveva colto i primi sintomi la moglie numero uno, Maria Gabriella Podestà, una decina di anni fa, quando sostiene che l’allora marito non solo la tradisse sotto i suoi occhi (e non solo con Silvio), ma addirittura la prendesse a ceffoni e, quel che è peggio, la trascinò dalle verdi colline della Lunigiana “in un orrendo appartamento ad Arcore”, a due passi dalla reggia dell’Amato. Ora la sua lettera a Ferruccio de Bortoli, in cui Bondi denuncia il presunto strabismo del Pompiere della Sera nel denunciare gli scandali del centrodestra (ma quando mai) e gli intima di linciare Fini come fanno L i b e ro e il Giornale, minacciando in caso contrario di “additare il caso ai lettori del Suo quotidiano come davvero scandaloso”, fa male a lui e a tutti noi, suoi devoti fans. E il suo attacco a La Stampa che sul caso Fini si ostina a “mantenere un encomiabile riserbo” fa temere che il Bondi Ogm confonda il ministero della Cultura con quello mussoliniano della Cultura popolare (detto anche Minculpop). Timore confermato dalla sua assenza ai funerali di Suso Cecchi D’Amico, donna simbolo di oltre mezzo secolo di cinema italiano. Non sappiamo se la metamorfosi bondiana sia o meno reversibile, ma pretendiamo che gli vengano affiancati i migliori specialisti del ramo licantropia affinché si dedichino allo studio del suo pietoso caso, senza badare a spese, anche a carico dello Stato, e ci restituiscano al più presto il James di prima. Fresco come una rosellina di maggio, ben paffuto e soprattutto rasato. L’abbiamo già detto e lo ripetiamo: passerotto, non andare via.

La libertà dei servi

Mercoledì 4 agosto 2010 – Anno 2 – n° 207

La libertà dei servi

C'è vita nel Pd ora che il Pdl scoppia? Nemmeno i rilevatori più sensibili, quelli in grado di captare il battito d’ali delle farfalle, riescono a cogliervi minime tracce di attività vitale. Anzi, più si sentono parlare i cosiddetti leader di quella che dovrebbe essere l’alternativa al regime che frana, più si capisce che non hanno nulla da dire. Quando sono proprio al massimo dell’attività cerebrale non riescono ad architettare che governicchi tecnici, istituzionali, balneari, ammucchiatine ribaltoniste buone solo a evitare ciò che più di ogni altra cosa li terrorizza: le elezioni, anzi gli elettori. Abituati a far politica a tavolino, a prescindere dalla gente, non riescono nemmeno a immaginare qualcosa di decente che convinca gli italiani a votarli. Soggiogati dall’incantesimo berlusconiano, non trovano parole che non siano già state confiscate da B. o che non provengano dal Jurassic Park della Pr ima Repubblica. Basta leggere l’intervista a Repubblica di quello che dovrebbe essere l’homo novus del Pd, Sergio Chiamparino, che ha 62 anni e s’iscrisse al Pci nel 1970. Il tenero virgulto ha un’idea davvero fulminante: “Ci vuole un congresso per dettare la nostra agenda”. Roba arrapante: già immaginiamo milioni di elettori elettrizzati che si accalcano alle porte transennate del congresso, ansiosi di visionare “la nostra agenda”. Nazareno Gabrielli? O Buffetti? O Vagnino? Pelle o similpelle? Saranno previste agendine tascabili per i minori? E non è finita: “Si individuino – intima il virgulto – quattro problemi per avanzare proposte alternative forti”. Anzi tre: “Il federalismo; le relazioni tra imprese e sindacati; il fisco”. La prima parola d’ordine è già occupata da Bossi, la terza da B. e sulla seconda è meglio stendere un velo pietoso, visto che i Chiamparini fino al mese scorso erano innamorati persi di Marchionne, poi hanno scoperto chi è. L’idea di parlare di legalità non li sfiora neppure, anche perché metterebbe in fuga metà del partito, infatti quella bandiera se l’è fregata Fini. Per capire qualcosa in questo manicomio organizzato è utile il saggio di Maurizio Viroli, La libertà dei servi: descrive il “sistema della corte” in cui lo strapotere del despota assorbe tutto e tutti quelli che vogliono contare qualcosa, tanto gli alleati e i servi quanto i presunti oppositori che finiscono col confinarsi nel recinto cortigiano, parlando solo di quel che vuole Lui e usando solo le sue parole. Bisogna eleggere i membri laici del Csm? Non sia mai che si esca dal recinto: Lui ci manda i suoi avvocati, Bossi ci manda il suo avvocato, dunque il Pd ci manda l’avvocato di D’Alema. C’è da eleggere il vicepresidente del Csm? Si prende un bel democristiano che è stato sottosegretario di B, convive da una vita coi Cuffaro e i Cesa, ha salvato B. depenalizzandogli il falso in bilancio, escogitandogli il legittimo impedimento, votando tutte le leggi vergogna nessuna esclusa, e ora dice “basta conflitti fra politica e magistratura”. È una scempiaggine senza capo né coda, lo sanno tutti che i “conf litti” sono processi doverosamente istruiti dalla magistratura su politici ladri e mafiosi. Ma chi li chiama “p ro c e s s i ” e non “conf litti” esce dal recinto della corte, non sia mai. C’è pure il rischio di innervosire il Pompiere della Sera e il capo dello Stato, così giulivi per l’elezione quasi unanime dell’ennesimo impresentabile in una istituzione di controllo (nell’italica corte, ogni robaccia che puzza lontano un miglio diventa Chanel numero 5 purché sia “condivisa”). Intanto il capo dello Stato, stando ai boatos, blocca la nomina di Paolo Romani a ministro dello Sviluppo economico perché sarebbe in conflitto d’interessi per la sua precedente attività di editore televisivo. Oh bella: e perché non ci ha pensato due anni fa, quando Romani divenne sottosegretario delle Comunicazioni? E perché un piccolo conflitto d’interessi dovrebbe impedire a Romani di fare il ministro e uno smisurato conflitto d’interessi non dovrebbe impedire a B. di fare il presidente del Consiglio? Semplice: perché, a corte, Lui è lui e noi non siamo un cazzo.

Probivili

Martedì 3 agosto 2010 – Anno 2 – n° 206

Probivili

Piero Ostellino è in lutto. Le retate che, giorno dopo giorno, portano via i suoi beniamini del Pdl gli fanno temere un futuro di sconsolata solitudine. Il ritiro della legge bavaglio da parte degli stessi che l’avevano voluta fa di lui l’ultimo giapponese che seguita a difenderla perché nessuno lo avverte che è finita. E l’ipotesi di una prematura dipartita del governo Berlusconi lo getta nel più profondo sconforto. Con tutta la fatica che aveva fatto 18 anni fa per riposizionarsi dopo la scomparsa dell’amato Craxi, il pover’uomo teme di ritrovarsi un’altra volta senza spirito-guida. Il berlusconismo sta finendo e lui non sa cosa mettersi. Basterebbe poco per avvertirne gli eventuali lettori sul Pompiere della Sera. Un distico nella rubrica delle lettere: “Ostellino chiude per lutto, tornerà quando l’avrà elaborato”.O un annuncio nella pagina dei necrologi: “Silvio, ti sia lieve la terra. Il tuo Piero, vedovo inconsolabile”.O magari una foto dell’insigne pensatore “l i b e ra l e ” ch e lacrima al muro del pianto di Palazzo Grazioli. Invece Ostellino, parendogli pochi il 14 per cento di lettori persi dal suo giornale, ha voluto contribuire alla picchiata con un editoriale dal sapido titolo “Il conflitto da evitare”. Una dotta lezione urbi et orbi sulla “prassi giornalistica in una democrazia liberale m a t u ra ”. Roba forte. Ciò che l’atterrisce è lo “s p e t t ro di una crisi istituzionale” che potrebbe travolgere “i m o d e ra t i ” (il Pdl, figuriamoci) e i “rifor misti” (il Pd, figuriamoci). Ma si capisce che ancor più lo sgomenta la caduta del governo. Basterebbe dirlo chiaramente: mi piace tanto Silvio, lo adoro, non riesco a fare a meno di lui, era dai tempi di Bettino che il cuore non mi batteva così forte. Invece no, Ostellino si traveste da super partes e dice di volersi “limitare a fornire ai lettori una interpretazione di quanto sta accadendo”. Poi però, siccome al cuore non si comanda, viene fuori al naturale. Tuona contro la società civile “divisa tra berlusconiani e antiberlusconiani”, sintomo di una pericolosa “sindrome di isteria collettiva” (peraltro presente in tutto il mondo: l’America è divisa tra obamiani e antiobamiani, la Francia tra sarkozisti e antisarkozisti, la Spagna tra zapateriani e antizapateriani). Poi strapazza i giornali che “suggeriscono a Fini ritmi e modalità per rendere difficile la vita al governo” e pensano che per “far fuori il ‘caimano’ ogni mezzo è lecito”. Insomma, “la separazione dei poteri, le garanzie costituzionali e il liberalismo sono temporaneamente sospesi” visto che “non è compito di un giornale disarcionare o tener in sella un governo”. Ora, in tutte le democrazie del mondo la stampa rende difficile la vita ai governi e, quando riesce a farli cadere denunciando qualche scandalo, viene premiata col Pulitzer. La separazione dei poteri esiste proprio per consentire ai Parlamenti di controllare i governi e, se del caso, farli cadere. E nella Costituzione non c’è scritto da nessuna parte che i governi non possano cadere, anzi c’è scritto il contrario. Ma tutto questo Ostellino non lo sa. Non s’è nemmeno accorto che non c’è nulla di più illiberale di un partito che, come il Pcus e il Pci, caccia in mezz’ora i dissenzienti senza nemmeno uno straccio di regolare processo. Un liberale dovrebbe fremere di sdegno dinanzi a un ducetto che fa espellere Fini e i finiani per i delitti di legalità e antimafia, pretende di destituire il presidente della Camera perché non gli bacia la pantofola coi tacchi, compra parlamentari un tanto al chilo e così – nota Andrea Manzella su Repubblica – “viola i tre punti essenziali della Costituzione liberale: la libertà dei cittadini di associarsi in partiti democratici (art. 49); la libertà delle Camere di eleggere i propri presidenti senza imposizione dall'esterno (art. 63); la libertà dei parlamentari di rappresentare la nazione senza vincolo di mandato (art. 67)”. Ma viene il dubbio che Ostellino abbia studiato il liberalismo sui testi di Verdini, abbia imparato la separazione dei poteri da Capezzone e prenda ripetizioni di diritto costituzionale da Stracquadanio.

Proniviri

Sabato 31 luglio 2010 – Anno 2 – n° 204

Proniviri

L'altra sera, al Gran Coniglio del P3dl riunito a Palazzo Grazioli, Denis Verdini passeggiando nervosamente nella stanza ordinava a Sandro Bondi: “Carta, calamaio e penna!”. L’apposito James subito eseguiva e, curvo sullo scrittoio a ribaltino, vergava il comunicato della Banda Bassotti per liquidare Fini e deferire ai probiviri altri tre deviazionisti. Un unicum nella storia, dall’età della pietra a oggi: mai nessun politico, nemmeno in certi stati africani dove gli avversari venivano eliminati per via non giudiziaria, ma gastroenterica, era stato cacciato dal suo partito per eccessi di legalità. Dettava dunque Verdini: “L’Ufficio di P re s i d e n z a …’. Sandro, apri una parente. L’hai aperta? ‘…che siamo noi…’. Chiudi la parente. ‘…considera le posizioni dell’on. Fini assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Pdl’. Virgola, anzi punto e virgola, due punti. Massì, abbondiamo, abbondantis a bbondandum!”. Ogni tanto bussavano alla porta e Verdini, colto da un sussulto, guadagnava prontamente il cornicione, temendo da un momento all’altro l’irruzione dei gendarmi o degl’ispettori della Banca d’Italia che lo tallonano da tempo. Ma niente paura: una volta era La Russa che faceva capolino soffiando in una lingua di menelik per portare un po’ di buonumore. Un’altra volta era B. con un reggiseno a mo’ di bandana e un tanga a tracolla per raccomandare di andarci giù pesanti col traditore, poi tornava ai consueti passatempi. “Allora, Sandro, dov’eravamo rimasti? Ah sì: Fini è colluso con la giustizia e l’antimafia, continua pervicacemente a non rubare e per giunta rifiuta di tenerci il sacco, farci il palo e coprirci la fuga”. “Scusi se oso, magnifico Denis”, esalava James, “ma così dicendo qualcuno penserà che il documento l’abbia scritto Gambadilegno. Forse è meglio dire le stesse cose in forma più aulica: tipo che Fini ha fatto mancare ‘il vincolo di solidarietà ai propri compagni di partito, vorrebbe consegnare alle Procure tempi, modi e contenuti degli organigrammi istituzionali e di partito’, ‘pone in contraddizione legalità e garantismo, si mostra esitante nel respingere i teoremi su mafia e politica’… Che dici? Tanto chi vuol capire capisce”. “Oh, mettila giù come ti pare, ma lascia perdere le rime baciate. Purchè si capisca qual è il problema: quello non ruba e non lascia rubare, mettendoci in cattiva luce con gli amici degli amici e disorientando il nostro elettorato. Tanto poi ci pensano il Giornale e L i b e ro a tirar fuori i dossier e il Corr iere a gabellare il tutto come un capriccio caratteriale. E fai un po’ prestino ché c’ho una partita di assegni di passaggio e non vorrei perdermela”. Intanto, anticipando i desiderata di Denis, l’ambasciatore Sergio Romano calzava la feluca d’ordinanza e le ghette primavera-estate delle grandi occasioni (le portava già a Plombières nel 1858, quando accompagnò Costantino Nigra e la contessa di Castiglione a rendere visita a Napoleone III e a passarvi le acque), aveva già telegrafato il consueto puntuto editoriale al Corriere della Sera, di quelli che da soli riescono a metterne in fuga il 14% dei lettori. “Di grazia – ammoniva il sempre vispo diplomatico, alternando il monocolo al più moderno e civettuolo pince-nez – risparmiateci questo spettacolo avvilente”, non “bisticciate” e “passate alla ricerca di formule che possano assicurare continuità e stabilità del governo”, “componendo le divergenze e accordandovi su un percorso comune” con “un’intesa fondata sulle vere esigenze del Paese” che “gioverà a coloro che avranno seriamente tentato di realizzarla”. Insomma gliele ha cantate chiare, come sempre. Dal canto suo, il Pd si accreditava come autorevole alternativa al P3dl, mandando al Csm l’ottimo Vietti, già autore della legge porcata sul falso in bilancio, e Calvi, l’avvocato di D’Alema, che terrà compagnia all’avvocato di Bossi, Brigandì, e a uno dei 67 avvocati di B., tale Palumbo. Perché, come dice Bersani, “siamo pronti per qualsiasi soluzione”. Anche a sostituire B. facendo le stesse cose.

La Corte e i cortigiani

Giovedì 29 luglio 2010 – Anno 2 – n° 202

La Corte e i cortigiani

A beneficio dei finti tonti che preferiscono non vedere e non sentire, è bene rileggere fino alla noia poche righe dell’ordinanza con cui il presidente del Tribunale del Riesame di Roma, Guglielmo Muntoni, ha confermato il carcere per il trio P3 Carboni-Lombardi-Martino: “Lombardi era riuscito a ottenere l’assicurazione sul voto, nel senso voluto dai sodali, di 7 dei 15 giudici della Corte costituzionale” per la costituzionalità dell’incostituzionalissimo lodo Alfano. Poi uno cambiò idea e il lodo fu bocciato il 7 ottobre 2009 con una maggioranza di 9 a 6: ma “resta il fatto che tale ingerenza ci fu e venne esercitata su almeno 6 giudici costituzionali che anticiparono a un soggetto come il Lombardi la loro decisione”. Un giudice terzo, non un pm rosso di passaggio, non un ambiguo flatus vocis intercettato, ha le prove che “almeno 6 giudici” della Corte violarono il segreto della camera di consiglio e anticiparono a un faccendiere di quart’ordine, il geometra irpino Pasqualino Lombardi, il voto favorevole a una legge incostituzionale. Cioè: la Consulta è inquinata per i due quinti dei suoi componenti da giudici felloni e continuerà ad esserlo finché costoro non cesseranno dall’incarico. La stessa mafia partitocratica che regna nelle Asl, nelle fondazioni bancarie e nelle cosiddette Authority (vedi indagine di Trani) è penetrata non solo nel Csm (dove l’elezione dell’udc Vietti a vicepresidente e di politicanti di destra e sinistra a membri laici perpetuerà l’andazzo anche per la prossima consiliatura), ma addirittura nel massimo organo di garanzia sulla legittimità delle leggi dello Stato. Ciascun partito, lobby, banda, cricca, P2 e P3 ha i suoi uomini di fiducia da chiamare per pilotare, condizionare o almeno conoscere in anticipo le decisioni dell’organo costituzionale che più di ogni altro dovrebbe essere super partes, dunque impermeabile. L’ennesimo colpo di Stato si consuma sotto gli occhi di chi si ostina a non vedere e non provvedere. Non erano dunque millanterie, fanfaronate, voci dal sen fuggite quelle captate nelle telefonate fra Lombardi e gli altri compari di P3 dopo la bocciatura del lodo: “Chist’ erano sette, so’ statt’ siempre sette, l’o t t av ’ nun l’ammo mai truvate... che cazz’ t’a gg’a dicere... Noi ne tenevamo cinque certi e ce ne volevano (altri, ndr) tre, ne tenevamo due (incerti, ndr) e ce n’è rimasto uno... ch’amm’a fa’. . .”. E non erano tentativi maldestri di “quattro sfigati in pensione” le riunioni chez Verdini col sottosegretario Caliendo, il senatore Dell’Utri, i giudici Martone e Miller, collegati via cavo con Carboni, Martino e Lombardi, alla vigilia del voto della Consulta. L’ha confessato Lombardi ai pm: “Facevo pressioni sulla Corte per acquisire meriti con Berlusconi”. E B. sapeva tutto, se è vero che la sera del 7 ottobre tuonò a Porta a Porta: “Il presidente della Repubblica aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta. Bastava che intervenisse con la sua nota influenza sui giudici e ci sarebbe stato quello spostamento di due voti che avrebbe fatto passare la legge. E su Napolitano le mie dichiarazioni potrebbero essere anche più esplicite e dirette...”. Come poteva il premier conoscere i numeri top secret dei voti favorevoli e contrari al lodo? Chi gli aveva detto che, per raggiungere la maggioranza di 8 a 15, bastava uno “spostamento di due voti”? Un mese prima L’e s p re s s o aveva rivelato che due dei giudici pro-lodo, Mazzella e Napolitano (solo omonimo del capo dello Stato) avevano cenato con B., Alfano e Gianni Letta. Ma quando Di Pietro osò chiedere loro di dimettersi o almeno di astenersi dal voto, restò isolato e il Colle tacque. Che intende fare ora il Quirinale, a cui spetta la nomina di 5 giudici costituzionali, per onificare la Consulta ed evitare che gli “almeno 6 g iudici” di cui sopra continuino a rispondere a questo o quel faccendiere di governo, anziché alla Costituzione repubblicana? Stavolta il solito “monito” potrebbe non bastare. Ma, finora, non è arrivato nemmeno quello.

Probovirus

Martedì 27 luglio 2010 – Anno 2 – n° 200

Probovirus

Bisogna essere grati all’onorevole Granata non solo per aver detto ciò che tutti sanno, e cioè che negando la protezione a Spatuzza il governo ostacola la lotta alla mafia. Ma anche per altri due fondamentali motivi. Primo, aver turbato i sonni di Pigi Battista, che intravede nella sua dichiarazione quel “certo morbo giustizialista che evidentemente in Italia alligna in tutti gli schieramenti” (magari!). Secondo, avere riportato alla luce una specie zoologica che si temeva estinta, più rara e inaspettata dell’ippogrifo, del centauro e dell’ircocervo: il proboviro del Pdl. Pare che, ibernati nel museo di storia naturale di Palazzo Grazioli, ne esistano addirittura dieci esemplari. Di più non se ne son trovati, visto che incarnano altrettanti ossimori: oltreché viri, essi devono essere pure probi, il che per il Pdl costituisce una contraddizione in termini. Il loro presidente è un anziano filosofo sui 90 anni, Vittorio Mathieu. Poi c’è un compagno di classe di B., Guido Possa, poi c’è un pluritrombato ex fondatore di Forza Italia appena distaccato in una società Rai, poi ci sono la signora Armosino e un giudice che lavora con Alemanno, Sergio Gallo, che andava ai convegni di magistrati organizzati dalla P3; completano il quadro tali Tofoni, Sisto, Casali e un certo Cella (un nome, un auspicio). Come rivela Urbani – il più vispo fra i dieci – in due anni di Pdl l’illustre consesso non si è mai riunito. Del resto non ve ne sarebbe stato motivo: in un partito che annovera B., Dell’Utri, Previti, Cosentino, Verdini, Brancher, Scajola, Fitto, Cicchitto, Letta, Cappellacci, Scopelliti, Brancher, Matteoli, Lunardi, Caliendo, Ciarrapico, Angelucci e altri gigli di campo, i probiviri non hanno molta scelta. O si suicidano in massa, oppure per far prima cacciano chi osa parlare di legalità e questione morale. Brutte parole, pure provocazioni. Quando Fini, all’auditorium della Conciliazione, si lasciò scappare “legalità”, la sala fu scossa da un fremito di emozione mista a sdegno e sgomento. B. rischiò di perdere pure i capelli finti, Verdini accennò alla fuga, Bondi rischiò l’ipossia e La Rissa l’embolo. Ora questo Granata si azzarda addirittura a negare la solidarietà a Dell’Utri, si dice contrario al monumento equestre per Mangano e, non contento, parla financo di lotta alla mafia. Delle due l’una: o è comunista o è indemoniato. La sua incompatibilità balza subito agli occhi di Maurizio Lupi, il ciellino amico di Abelli (vedi scandalo Poggi Longostrevi e voti della ‘ndrangheta) e di Grossi (quello della splendida bonifica a Milano-Santa Giulia): “Granata contraddice i nostri valori fondanti (probabilmente quelli custoditi al Credito Fiorentino di Verdini, ndr). O se ne va o finisce ai probiviri”. Littorio Feltri parla di “intelligenza col nemico”, senza peraltro indicare il nemico (lo Stato? L’antimafia? La legge?); ma il problema vero è l’intelligenza, tara davvero inaccettabile da quelle parti. La Rissa, triumviro del Partito dell’Amore, suggerisce a Granata “il ricovero in ospedale” e dà del “quaquaraquà” (dotta citazione di don Mariano, il padrino del Giorno della civetta). Urbani, molto viro e soprattutto molto probo, anticipa il verdetto: “C’è un’evidente incompatibilità culturale con la stragrande maggioranza del partito”. La cultura in questione è quella che si insegna all’Università telematica del Cepu, di recente visitata da B., dove Dell’Utri è docente di Storia contemporanea (imperdibili le sue lezioni sui falsi diari del Duce) e Ubaldo Livolsi di Mercati finanziari internazionali (rinviato a giudizio per concorso in bancarotta); ma anche all’annuale seminario di Gubbio, dove il mese prossimo i professori Bondi, Cicchitto, Schifani e Carfagna sviscereranno il tema “Competenza e onestà per una buona politica”. Ancora incerta la presenza di Cosentino che, nel caso fosse ancora a piede libero, dovrebbe chiudere il simposio con una lectio magistralis sull’arte del dossier nel Terzo millennio, dal titolo “Quel culattone di Caldoro, fra bocchiniani e bocchinari”.

Ai lettori

Domenica 25 luglio 2010 – Anno 2 – n° 199

Ai lettori

Da oggi sono in ferie.
Scriverò sul Fatto
quando mi
pruderanno le mani,
ma non tutti i giorni.
Buone vacanze a tutti.
Marco Travaglio

Parla Roberto Scarpinato

Sabato 24 luglio 2010 – Anno 2 – n° 198

Parla Roberto Scarpinato

Dottor Roberto Scarpinato, come nuovo procuratore generale a Caltanissetta lei dovrà occuparsi dell’iter della revisione del processo per la strage di via D’Amelio, che a quanto pare ha condannato definitivamente almeno sette persone innocenti, di cui tre si erano autoaccusate falsamente. Ora, sulle stragi del 1992-93, i suoi colleghi di Palermo e Caltanissetta dicono che siamo prossimi a una verità che la classe politica potrebbe non reggere. Qual è la sua opinione? Proprio a causa del mio nuovo ruolo non posso entrare nel merito di indagini e processi in corso. Mi limito a un sommario inventario che induce a ritenere che i segreti del multiforme sistema criminale che pianificò e realizzò la strategia terroristico-mafiosa del 1992-93 siano a conoscenza, in tutto o in parte, di circa un centinaio di persone. E tutte, dalla prima all’ultima, continuano a custodirli dietro una cortina impenetrabile. E chi sarebbero tutte queste persone? Partiamo dai mafiosi doc: Riina, Provenzano, i Graviano, Messina Denaro, Bagarella, Agate, i Madonia di Palermo, Giuseppe Madonia di Caltanissetta, Ganci padre e figlio, Santapaola e tutti gli altri boss della “commissione regionale” di Cosa Nostra che si riunirono a fine 1991 per alcuni giorni in un casale delle campagne di Enna per progettare la strategia stragista. Una trentina di boss che poi riferirono le decisioni in tutto o in parte ai loro uomini di fiducia. Altre decine di persone. Nessuno di loro ha mai detto una parola sul piano eversivo globale. Le notizie che abbiamo ce le hanno fornite uomini d’onore che le avevano apprese in via confidenziale da alcuni partecipanti al vertice, come Leonardo Messina, Maurizio Avola, Filippo Malvagna. Altri a conoscenza del piano sono stati soppressi poco prima che iniziassero a collaborare, come Luigi Ilardo, o sono stati trovati morti nella loro cella, come Antonino Gioè. Agli esecutori materiali delle stragi o di delitti satellite, i vertici mafiosi in genere non rivelavano i retroscena politici del piano stragista, si limitavano a fornire spiegazioni di causali elementari e di copertura. Aggiungiamo i vertici della ndrangheta che, come hanno rivelato vari collaboratori, tennero nello stesso periodo una riunione analoga nel santuario di Polsi. Chi altri sa? È da supporre una serie di personaggi che anticiparono gli eventi che poi puntualmente si verificarono. L’agenzia di stampa “Repubblica” vicina a Vittorio Sbardella, ex leader degli andreottiani romani (nulla a che vedere col quotidiano omonimo) scrisse 24 ore prima di Capaci che di lì a poco si sarebbe verificato “un bel botto” nell’ambito di una strategia della tensione finalizzata a far eleggere un outsider come presidente della Repubblica al posto del favoritissimo Andreotti. Il che puntualmente avvenne, così Andreotti fu costretto a farsi da parte e venne eletto Scalfaro. Anni dopo Giovanni Brusca ha riferito che la tempistica di Capaci era stata preordinata per finalità che coincidono esattamente con quelle annunciate nel profetico articolo. Dunque, o l’autore aveva la sfera di cristallo, o conosceva alcuni aspetti della strategia stragista e aveva deciso di intervenire sul corso degli eventi con una comunicazione cifrata, comprensibile solo da chi era a parte del piano. L’agenzia Repubblica aveva pure anticipato il progetto globale in cui si inscriveva il delitto Lima. Esattamente. Il 19 marzo 1992, pochi giorni dopo l’asassinio di Salvo Lima (andreottiano come Sbardella, ndr), l’agenzia annunciò che l’omicidio era l’incipit di una complessa strategia della tensione “all’interno di una logica separatista e autonomista […] volta a consegnare il Sud alla mafia siciliana per divenire essa stessa Stato al fine di costituirsi come nuovo paradiso del Mediterraneo […] mediante un attacco diretto ai centri nevralgici di mediazione del sistema dei partiti popolari […] Paradossalmente il federalismo del Nord avrebbe tutto l’interesse a lasciare sviluppare un’analoga forma organizzativa al Sud lasciando che si configuri come paradiso fiscale e crocevia di ogni forma di traffici e di impieghi produttivi, privi delle usuali forme di controllo, responsabili della compressione del reddito derivabile dalla diversificazione degli impieghi di capitale disponibile”. Anni dopo Leonardo Messina rivelò alla magistratura e all’Antimafia il progetto politico secessionista di cui si era discusso nel summit di Enna su input di soggetti esterni che dovevano dare vita a una nuova formazione politica sostenuta da “vari segmenti dell’imprenditoria, delle istituzioni e della politica”. Come faceva l’autore dell’articolo a sapere ciò che anni dopo avrebbe svelato Messina? È come se circolassero informazioni in un circuito separato e parallelo a quello destinato alla massa. Un circuito soprastante alla base mafiosa, delegata ad eseguire la parte militare del piano, e interno alla mente politica collettiva che quel piano aveva concepito, anche se poi quel piano mutò in corso d’opera per una serie di eventi sopravvenuti, e si puntò così ad una diversa soluzione incruenta. In questo quadro c’è poi da chiedersi perché, in un’intervista del 1999, il professor Miglio, ex teorico della Lega Nord, dichiarò parlando dei fatti dei primi anni ‘90: “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”. Andiamo avanti. L’ex neofascista Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, il 4 marzo 1992 scrisse una lettera dal carcere al giudice Leonardo Grassi per anticipargli che “nel periodo marzo-luglio” si sarebbero verificati fatti per destabilizzare l’ordine pubblico con esplosioni dinamitarde e omicidi politici. Puntualmente il 12 marzo fu ucciso Lima e nel maggio e luglio ci furono le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il 18 marzo Ciolini aggiunse che il piano eversivo era di “matrice masso - politico - mafiosa”, come rivelarono poi alcuni collaboratori di giustizia, e preannunciò un’operazione terroristica contro un leader del Psi. Anni dopo accertammo che era stato progettato l’omicidio di Claudio Martelli, fallito per alcuni imprevisti. Chi manca, alla “lista della spesa”? Quanti si celavano dietro la sigla della “Falange armata”i quali, pochi giorni dopo le dimissioni di Martelli da ministro perché coinvolto nelle indagini sul conto segreto svizzero “Protezione” a seguito delle dichiarazioni rese da Silvano Larini (il 9.2.1993) e da Licio Gelli (il 17.2.1993), diffusero il 21 aprile 1993 un comunicato per invitare Martelli a non fare la vittima e ad essere “grato alla sorte che anche per lui si sia potuta perseguire la via politica invece che quella militare”; e poi per lanciare avvertimenti a Spadolini, Mancino e Parisi, annunciando future azioni. Pochi mesi dopo, la manovra dello scandalo dei fondi neri del Sisde indusse Parisi a dimettersi, fece vacillare il ministro Mancino e anche il presidente Scalfaro, il quale denunciò che dietro quella vicenda si muovevano oscuri progetti di destabilizzazione politica. E poi? L’elenco sarebbe molto lungo e coinvolgerebbe tanti soggetti di quali non posso parlare, visti i limiti che derivano dal mio ruolo. Possiamo forse aggiungere alcuni di coloro che hanno concepito il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio: cioè la costruzione a tavolino, tramite falsi pentiti, di una versione minimalista che ha “tarato" le indagini verso il basso, circoscrivendola a una banda di piccoli criminali come Scarantino, e garantendo intorno ad essa un muro impenetrabile di omertà che ha retto fino a un paio di anni fa, cioè alle dichiarazioni autoaccusatorie di Spatuzza. Poi, se i riscontri dovessero confermare le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ci sono i vari “signor Franco” o “signor Carlo” che affiancarono suo padre Vito facendo da cerniera tra mondo mafioso e mondi superiori durante le stragi. E inoltre quanti garantirono a Provenzano, garante della soluzione politica alternativa a quella cruenta di Riina, di muoversi per anni liberamente per l’Italia e di visitare Vito Ciancimino gli arresti domiciliari. Poi coloro che fecero sparire l’agenda rossa di Borsellino. E tanti altri... Come gli ufficiali del Ros Mori e De Donno, ora imputati per la mancata cattura di Provenzano dopo la trattativa che portò all’arresto di Riina, con annessa mancata perquisizione del covo e sparizione delle carte segrete del boss. E i superiori militari e politici che autorizzarono quella “trattativa”. Non posso rispondere. Sono fatti ancora oggetto di indagini in corso. Su questa convergenza di ambienti e interessi lei, a Palermo, aveva avviato l’indagine “Sistema criminale”, poi in parte archiviata. Che cos’è il sistema criminale? Quello che abbiamo appena sintetizzato. Un sistema composto da esponenti di mondi diversi, tutti rimasti orfani dopo la caduta del Muro di Berlino delle passate protezioni, all’ombra delle quali avevano potuto coltivare i più svariati interessi economici e criminali, tra questi anche la mafia militare sino ad allora tollerata come anticorpo contro il pericolo comunista. Questi mondi intercomunicanti attraverso uomini cerniera erano accomunati da un interesse convergente: destabilizzare il sistema agonizzante della Prima Repubblica e impedire un ricambio politico radicale ai vertici del Paese con l’avvento delle sinistre al potere (la “gioiosa macchina da guerra”). Ciò doveva avvenire mediante la creazione di un nuovo soggetto politico che avrebbe dovuto conquistare il potere mediante un’articolata strategia che si snodava contemporaneamente sul piano militare e politico. La nostra ipotesi, almeno sul piano storico, esce sempre più confermata dalle recenti scoperte investigative. Nella stagione delle stragi si muovono molteplici operatori che poi si dividono i compiti. Chi concepisce il piano, chi lo realizza a livello militare, chi organizza la disinformazione e chi i depistaggi. Basterebbe che cominciasse a parlare qualcuno che conosce anche solo la sua parte, per consentirci enormi passi avanti avanti nella ricerca della verità. Ma, finora, non parla nessuno. Bè, mafiosi come Spatuzza e figli di mafiosi come Massimo Ciancimino parlano. E costringono a ricordare qualche esponente delle istituzioni: gli improvvisi lampi di memoria di alcuni politici, dopo 17-18 anni, sul ruolo di Mori durante la “trattativa” con Ciancimino fanno pensare che tanti a Roma sappiano molto, se non tutto... Anche qui preferisco non addentrarmi in vicende specifiche, tuttora oggetto di indagini e processi. Prescindendo da casi specifici, vista dall’alto la tragica sequenza degli avvenimenti di quegli anni fa pensare al “gioco grande” di cui parlava Falcone: l’ennesimo gigantesco war game giocato all’interno di alcuni settori della nomenclatura del potere nazionale sulla pelle di tanti innocenti. Un war game trasversale combattuto anche a colpi di segnali, messaggi trasversali, avvertimenti in codice, veti incrociati e ricatti sotterranei: non potendo parlare esplicitamente tutti erano costretti a comunicare con linguaggi cifrati. Perché dice “ennesimo war game”? Tutta la storia repubblicana è segnata dal “gioco grande” celato dietro progetti di colpi di Stato poi rientrati (dal golpe Borghese al piano Solo) e stragi caratterizzate da depistaggi provenienti da apparati statali: da Portella della Ginestra alla strage di Bologna alle stragi del 1992-93. Perciò la questione criminale in Italia è inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale e con la questione stessa dello Stato e della democrazia . Possibile che, in un Paese debole di prostata dove nessuno nessuno si tiene niente, i segreti sulle stragi custoditi da tanta gente tanto eterogenea restino impenetrabili a quasi vent’anni di distanza? Molte stragi d’Italia nascondono retroscena che coinvolgono decine, se non centinaia di persone. Pensi a Portella della Ginestra: la banda Giuliano, i mafiosi, i servizi segreti, esponenti delle Forze dell’ordine, il ministero dell’Interno. Pensi alle stragi della destra eversiva. Così quelle politico-mafiose del 1992-93. La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo sebbene condiviso da decine e decine di persone, è il segno che su quel segreto è impresso il sigillo del potere. Un potere che cavalca la storia riproducendosi nelle sue componenti fondamentali e che eleva intorno al proprio operato un muro invalicabile di omertà, perché è così forte da poter depistare le indagini, alimentare la disinformazione, distruggere la vita delle persone, riuscendo a raggiungerle e a eliminarle anche nel carcere più protetto. Come Gaspare Pisciotta, testimone scomodo ucciso all’Ucciardone con un caffè alla stricnina, e a un’altra decina di persone al corrente dei segreti retrostanti la strage di Portella. E come Ermanno Buzzi, condannato in primo grado per la strage di Brescia e strangolato in carcere. Resta inquietante lo strano suicidio in carcere nel 1993 di Nino Gioè, appena arrestato e sospettato per Capaci, dopo strani incontri con agenti dei servizi e una strana trattativa avviata con Paolo Bellini, coinvolto in indagini sull’eversione nera negli anni 70, per aprire un canale con Cosa Nostra. Ed è inquietante che Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano, abbia raccontato di essere stato invitato a suicidarsi nel 2005, subito dopo l’inizio della sua collaborazione, ancora segretissima. Il muro dell’omertà comincia a fessurarsi solo quando il sistema di potere entra in crisi. È per questo che oggi si aprono spiragli importanti di verità? Presto per dirlo, ma ancora una volta la lezione della storia ce lo insegna. Quando la Prima Repubblica era potente, Buscetta, Marino Mannoia e altri collaboratori rifiutarono di raccontare a Falcone i rapporti mafia-politica: iniziarono a svelarli solo nel ‘92, quando quel sistema crollò, o meglio sembrò fosse crollato. Oggi il governo appena qualcuno torna a parlare, vedi Spatuzza, gli nega il programma di protezione. Che messaggio è? Quella decisione è stata presa contro il voto di dissenso dei magistrati della Procura nazionale antimafia che fanno parte della Commissione sui collaboratori di giustizia e contro il parere concorde dei magistrati di ben tre Procure della Repubblica antimafia: Caltanissetta, Palermo e Firenze. Intorno al caso Spatuzza e sul fronte delle indagini sulle stragi si è verificata una spaccatura assolutamente inedita tra magistrati e gli altri componenti della Commissione. Proprio perché non si tratta di una scelta di routine e proprio a causa di questa spaccatura, quella decisione in un mondo come quello mafioso che vive di segnali può essere equivocata e letta in modo distorto: nel senso che lo Stato in questo momento non è compatto nel voler conoscere la verità sulle stragi. Naturalmente non è affatto così, le motivazioni del dissenso sono di tipo giuridico, ma è innegabile che il pericolo esista. Dunque hanno ragione i pm di Caltanissetta quando dicono in Antimafia che la politica non è pronta a fronteggiare l’onda d’urto delle nuove verità sulle stragi? A me risulta che le loro dichiarazioni sono state riportate dalla stampa in modo inesatto. In ogni caso, sulle stragi e i loro retroscena abbiamo oggi un’occasione più unica che rara, forse l’ultima, per raccontare una storia collettiva sepolta da quasi vent’anni di oblio organizzato. Per restituire al Paese la sua verità e aiutarlo a divenire finalmente adulto. Se non dovessimo farcela neppure stavolta, non ci resterebbe che fare nostra un’amara considerazione di Martin Luther King: “Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici”.

Vomito ergo sum

Venerdì 23 luglio 2010 – Anno 2 – n° 197

Vomito ergo sum

In attesa che i nostri accaldati politici e osservatori trovino una risposta al torrido interrogativo “è la nuova Tangentopoli?”, una cosa è certa: le mirabolanti analogie fra gli autogol dei tangentari modello 1992 e quelli dei loro nipotini del 2010. Si difendono con alibi così sgangherati da sembrare confessioni. Quando finì dentro Mario Chiesa, Craxi lo bollò come “mariuolo che getta un’ombra su un partito che a Milano in 50 anni non ha avuto un solo amministratore condannato”. Poi ne acchiapparono qualcun altro, e si corresse un po’: “Nel Psi ci sono tre mele marce su una totalità di persone oneste”. Quando ne acciuffarono a centinaia, pontificò alla Camera: “Qui rubiamo tutti”, salvo poi accusare i giudici di processarlo perché “non potevo non s a p e re ”. Un anno dopo era ad Hammamet, latitante. Ora il suo figlioccio, il piccolo Silvio, gli copia i testi. Scajola e Verdini sono “casi isolati” in un partito “tutto p e r fe t t o ”. Anche Bossi, quando saltò fuori la tangente Montedison da 200 milioni alla Lega, irrise al “pirla” Patelli, il tesoriere leghista che l’aveva incassata. Furono condannati entrambi, il pirla e il capo. Oggi Belpietro sminuisce la P3 come “la loggia dei tre pirla guidata da Carboni” (saranno contenti gli altri due, Dell’Utri e Verdini). Feltri dà del “pirla” al direttore dell’ospedale di Pavia beccato con le cosche calabre. Berlusconi parla di “quattro sfigati in pensione”, Il Giornale di “millantatori da operetta”, Libero di “bulli di paese”, anzi “da film di Totò”. Il governatore Cappellacci, pilotato da Carboni, se lo dice addirittura da solo: “Sono un babbeo”, pensando così di salvarsi la reputazione. Nel 1987, in una delle Tangentopoline che anticiparono quella grossa, finì dentro per tangenti a Viareggio un tal De Ninno, funzionario Psi; l’indomani Craxi tuonò sull’Av a n t i ! : “La notizia suscita sorpresa e indignazione... De Ninno aveva informato i dirigenti del partito circa la sua posizione, risultando del tutto estraneo alla vicenda”. Ecco, se l’aveva assolto il partito, come si permettevano i giudici di arrestarlo lo stesso? Ora B. sentenzia che Cosentino è innocente perché “ho appurato personalmente la sua totale estraneità ai fatti contestati dai pm”. Un alibi di ferro. Chiesa, quando gli aprirono la cassetta di sicurezza piena di miliardi, disse che erano “i risparmi di mio padre”. Craxi, a proposito dei 50 miliardi sui suoi due esteri, sbottò: “Dopo 40 anni di lavoro, posso contare su qualche risparmio...”. E il giudice Squillante, quando gli trovarono 9 miliardi in Svizzera, riattaccò con i “risparmi di una famiglia numerosa”. Non portò fortuna neanche a lui. Ora Verdini ci riprova: i 2,6 milioni targati Carboni sono “risparmi personali, frutto dei sacrifici miei e della mia famiglia”. Come 18 anni fa, è evaporato il pudore, è svanita la vergogna ed è sparita pure la logica. Altrimenti Cicchitto non direbbe mai: “Su Borsellino è stato commesso un enorme errore giudiziario che dovrebbe far riflettere chi ritiene la magistratura infallibile e i pentiti credibili”. Perché è stato proprio Spatuzza, pentito che il governo ritiene inattendibile al punto da negargli la protezione, a smontare l’errore giudiziario su via D’Amelio, accusandosi di una strage per cui languono all’ergastolo sette innocenti. Quindi, se errore giudiziario vi fu, ne deriva che Spatuzza è credibile: il contrario di quanto vorrebbe dimostrare il povero Cicchitto. Nel ’93 fu arrestato il dc Mongini e, appena confessò le mazzette, fu espulso dal partito perché con le affermazioni fatte, ha creato sconcerto nella pubblica opinione”. Lui commentò spiritoso: “Non mi cacciano per quel che ho fatto, ma per quel che ho detto”. Tempo dopo, Ferrara dichiarò a M i c ro M e g a : “Per fare politica devi essere ricattabile, cioè disponibile a fare fronte comune”. Ora Quagliariello se la prende con i finiani perché vogliono cacciare gli inquisiti: “Chi si scaglia contro i colleghi in difficoltà fa venir meno la solidarietà interna e indebolisce il par tito”. Resta da capire la differenza fra un partito e una cosca, ma queste sono sottigliezze.

Mangano e manganello

Giovedì 22 luglio 2010 – Anno 2 – n° 196

Mangano e manganello

Fingiamo per un attimo di essere un Paese normale. I magistrati che indagano sulla strage di via D’Amelio dichiarano solennemente dinanzi alla commissione parlamentare Antimafia di essere “a un passo dalla verità”. Quella vera, non quella taroccata da mille depistaggi di Stato. Cioè stanno per rivelarci chi e perché ha voluto la morte violenta di Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta. Dall’intero Paese, a cominciare dalla stampa, dalla classe politica e dalle più alte cariche istituzionali sempre pronte a lanciare moniti perché “sia fatta piena luce”, dovrebbe levarsi un coro unanime di applausi, di gratitudine, di encomi solenni. Il governo dovrebbe chiedere ai magistrati che cosa possono fare le istituzioni – più uomini, più mezzi, più risorse, più sostegno – perché anche quell’ultimo passo sia compiuto al più presto. E interrogarsi sui provvedimenti da prendere. Invece tutto il contrario. Un senatore della Repubblica, fondatore del partito che governa, condannato in appello per mafia e imputato per calunnia aggravata contro alcuni pentiti (in un processo che lui stesso ha bloccato alle soglie della sentenza d’appello con una richiesta di “legittima suspicione” per traslocarlo in un altro tribunale, avvalendosi di una legge vergognosa, la Cirami, che i suoi presunti oppositori si sono ben guardati dall’abrogare sebbene avessero solennemente promesso ai loro elettori di cancellarla), continua a ripetere che il suo eroe è Vittorio Mangano. Cioè il boss sanguinario travestito da stalliere che Borsellino, insieme con Falcone, fece condannare per mafia e per traffico di droga e che, due mesi prima di morire, definì in un’intervista a due giornalisti francesi “la testa di ponte di Cosa Nostra nel Nord Italia per il traffico di eroina”. Intanto il presidente del Consiglio, in visita al Milan, se la prende con le fiction e i film sulla mafia che, parlandone, ingigantirebbero la pericolosità di quell’opera pia. I suoi principali collaboratori, terrorizzati, manganellano i pm che han detto di essere a un passo dalla verità sulla strage, accusandoli di lanciare messaggi mafiosi al Parlamento solo perché hanno pronunciato un’ovvietà: e cioè che non sono sicuri che la classe politica sia pronta a fronteggiare l’onda d’urto della verità che emerge dalle indagini (per comprenderne la portata, basta fare la conta delle decine di politici, funzionari, dirigenti e agenti dei servizi e delle forze dell’ordine coinvolti direttamente o indirettamente nelle trattative e nei depistaggi). Un giornale sedicente indipendente come il Corriere scrive in prima pagina, a firma Panebianco, che il Csm dovrebbe tappare la bocca ai pm per evitare che rilascino dichiarazioni “clamorose e avventate” (e che ne sa lui?). Intanto gli house organ del premier titolano a tutta prima pagina: “Una bomba sulla testa di Berlusconi. Questo è terrorismo” (il Giornale), “I giudici minacciano Silvio. Messaggio esplosivo e sinistro dai pm siciliani”. Secondo Feltri, i magistrati “terroristi” vogliono addirittura “liquidare la maggioranza legittimamente eletta con metodi da repubblica delle banane”. Evidentemente in casa B. si sanno cose che non solo noi, ma nemmeno i magistrati conoscono. La Procura di Caltanissetta sta indagando su via D’Amelio e sulla retrostante trattativa (oggetto di accertamenti anche a Palermo) intrecciata dai vertici del Ros con Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino nell’estate del ’92, quando al governo c’erano ancora i partiti della Prima Repubblica e l’avvento di B. era di là da venire (è quella di Firenze, per ora silente, a indagare sul ‘93 e il possibile ruolo di Forza Italia). Dunque a preoccuparsi dovrebbero essere i reduci di quella stagione, non i protagonisti di quella che le subentrò. Invece in casa B, appena si avvicina la verità su via D’Amelio, pensano subito a B. La prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo. Nessuna persona normale, quando apprende che si sta per scoprire il colpevole di una strage, si preoccupa per sé. Nessuna, tranne B. Perché?

Non vedenti

Mercoledì 21 luglio 2010 – Anno 2 – n° 195

Non vedenti

Si fa appassionante la caccia al “Cesare ” della P3. Secondo i carabinieri è B. La Procura di Roma non è certa che sia lui. Ghedini, Il Geniale e il mèchato di L i b e ro (ieri mattina presente però a Omnibus senza le consuete mèches, ma con una chioma in tinta unita color antiruggine) son sicuri che non è lui. Ecco, lui non farebbe mai certe cose, tipo comprare giudici e aggiustare sentenze: infatti quello salvato dalla prescrizione per aver corrotto il giudice Metta tramite gli avvocati Previti, Pacifico e Acampora (tutti condannati con Metta per corruzione) per fregare la Mondadori a De Benedetti non è mica lui: è un omonimo. Mai, se avesse avuto anche soltanto il sospetto che B. fa certe cose, il Corr iere avrebbe potuto elogiarlo – come ha fatto l’altro giorno il pompiere capo Massimo Franco – perché sta ripulendo il P3dl dagli sparuti “segmenti di società che usano il governo come guscio dentro il quale ingrassare i loro comitati d’af fari”. È quel che scrive anche Giancarlo Perna, lievemente sgomento, sul Geniale: “Come fa il Cava circondarsi di simili ceffi? Verrà mai il giorno in cui, soppesata certa gente, la prenderà a calci nel sedere?”. Ecco, B. con i ceffi e i comitati d’affari non c’entra. Sono gli altri che lo dipingono così. Come Jessica Rabbit. È proprio vero che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Plotoni di non vedenti volontari stanno rimuovendo l’intera biografia berlusconiana per distinguere B. il buono dalla sua banda di cattivi (Carboni, Dell’Utri, Verdini, Scajola, Brancher, Caliendo, Cosentino, Sica, Lombardi, Martino). Nessuno osa domandarsi perché mai, un giorno sì e l’altro pure, Dell’Utri seguiti a esaltare l’eroismo di Mangano, un boss sanguinario pericoloso finché si vuole, ma morto dieci anni fa e ormai inoffensivo. A nessuno viene il dubbio che, quando elogia il silenzio (un tempo si sarebbe detto omertà) di Mangano morto, Dell’Utri parli del silenzio dei vivi: anzitutto il suo (“non so se, al posto di Mangano, riuscirei a resistere…”), e poi quello degli altri (mafiosi e non) che sanno tutto delle stragi del 1992-’93, ma finora non l’hanno rivelato. Tipo Giuseppe Graviano che, lungi dallo smentire le accuse di Spatuzza, ha preso tempo, riservandosi di parlare in un secondo momento. Non sarà che, nobilitando il silenzio di Mangano, si vuole perpetuare il silenzio di Graviano e far pesare quello di Dell’Utri? Il bello di queste vicende, sempre dipinte come fosche e misteriose, è che tutti sanno tutto. È universalmente noto che il no del governo alla protezione di Spatuzza è un sasso in bocca al pentito. L’ha confessato senz’accorgersene Cappuccetto Cicchitto: “Sappiamo perché alcuni tengono tanto a Spatuzza: egli avrebbe dovuto essere la bomba atomica da lanciare contro Berlusconi”. Dunque è per disinnescare la bomba atomica contro B. che il governo B. gli nega la protezione. Ed è per aver detto che “via D’Amelio non è solo mafia” che Fini è di nuovo nel mirino del P3dl. Ed è per aver accusato “settori del governo” di “rallentare le indagini sulle stragi” che il finiano Granata viene manganellato dal duo Cicchitto & Laboccetta. Lo sanno tutti che la posta in gioco è il legame fra l’inizio di Forza Italia e la fine delle stragi. Tutti, tranne i non vedenti. Sul solito Pompiere il solito gnorri Pigi Battista nega ogni rapporto fra i due eventi, con questa poderosa argomentazione: nell’estate ’93, quando esplosero le ultime bombe, i cavalli vincenti della politica erano Occhetto e Mariotto Segni, dunque è impossibile che Cosa Nostra abbia puntato sul partito di B. ideato da Dell’Utri. Forse gli sfugge un paio di particolari. Cosa Nostra aveva ottimi rapporti trentennali con Dell’Utri e B., mentre non conosceva Occhetto e Mariotto. Mangano, come risulta dalle agende di Dell’Utri, andò a trovarlo due volte nel novembre ’93 negli uffici milanesi di Publitalia dove stava nascendo Forza Italia. Che però, secondo il sagace Pigi, è nata sotto un cavolo o l’ha portata la cicogna. La mamma non gli ha ancora detto nulla di come nascono i partiti.

Fuori i politici dal Csm

Martedì 20 luglio 2010 – Anno 2 – n° 194

Fuori i politici dal Csm

Tra pochi giorni defungerà il peggior Consiglio superiore della magistratura della recente storia italiana. Quello che, salvo rare eccezioni, anziché fare pulizia del marciume che infesta il potere giudiziario, ha assecondato le cricche e le lobby, le vecchie P2 e le nuove P3, eliminando magistrati che avevano osato sfiorare o toccare in santuari intoccabili del potere. Che cioè, magari con qualche errore umano, avevano interpretato fino in fondo la Costituzione repubblicana. Come la Forleo, De Magistris, i pm salernitani Apicella, Nuzzi e Verasani. Ora sta per insediarsi il nuovo Csm: i membri “togati” sono stati appena eletti dai magistrati, mentre gli otto “laici” attendono che il Parlamento si decida a nominarli. Ieri, molto opportunamente, il presidente della Repubblica (e del Csm) ha invitato le Camere a spicciarsi e il Csm morente ad astenersi dall’occuparsi dello scandalo della P3. Sarebbe curioso se, a rimediare allo scandalo, fossero attuali consiglieri che s’intrattenevano al telefono o al bar col geometra irpino Pasqualino Lombardi e altri pitreisti. È semplicemente incredibile che il vicepresidente (fortunatamente uscente) Nicola Mancino dichiari alla Stampa che, sì, Pasqualino gli fece pressioni dirette e indirette perché votasse Alfonso Marra a capo della Corte d’Appello di Milano, ma lui non le ascoltò. Poi però votò proprio per Marra, pur sapendo che quei faccendieri si stavano mobilitando per lui. E si guardò bene dal denunciare quel che facevano, pur avendo rivisto il geometra Pasqualino addirittura all’inaugurazione dell’anno giudiziario e avendo pensato che l’avesse invitato l’altro amico, Vincenzo Carbone, primo presidente della Cassazione. Lo scandalo ricorda un altro momento buio della storia del Csm, quando “qualche giuda” – come disse Paolo Borsellino – tradì Giovanni Falcone e propiziò l’avvento di Antonino Meli alla guida dell’Ufficio istruzione di Palermo, che ne uscì smantellato. Montanelli scrisse più volte che, per essere un organo di autogoverno e non di eterogoverno, il Csm dovrebbe essere formato interamente da magistrati. Occorrerebbe una riforma costituzionale, per cacciarne i politici. Ma, per riscoprire il significato vero della composizione mista voluta dai padri costituenti, si potrebbe tornare a nominare come membri laici personalità di provata indipendenza, pescandole nel mondo del diritto, non della politica attiva. Il Csm non è un ufficio di collocamento per politici trombati: per restituirgli un minimo di prestigio e autorevolezza è ora che i partiti facciano un lunghissimo passo indietro. Inutile attenderselo da B. Ma potrebbero cominciare i partiti di opposizione e i finiani, nominando a Palazzo dei Marescialli figure che non abbiano mai ricoperto cariche elettive, governative, partitiche. Tutto il contrario dei nomi che si leggono sui giornali. L’Idv penserebbe all’avvocato Ligotti, persona degnissima, ma in questo momento un parlamentare ed ex sottosegretario di Prodi non è quel che ci vuole. Il Pd avrebbe in serbo l’avvocato Guido Calvi, già senatore nonché difensore di D’Alema e di un bel po’ di esponenti del Pd inquisiti negli ultimi anni; l’ex ministro Mattarella; l’ex ministro avvocato Flick; l’ex senatore Fanfani; e addirittura l’avvocato Petrucci, difensore di Piero Marrazzo. Ma diamo i numeri? I finiani spingerebbero l’avvocato Nino Lo Presti, deputato da varie legislature. Idem come sopra. L’Udc, con la solita faccia di tolla, candida Michele Vietti, deputato dalla notte dei tempi e sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi-2 in cui svettò come coautore della legge vergogna che di fatto ha depenalizzato il falso in bilancio, e pare che il Pd sia pronto a votarlo addirittura come vicepresidente al posto di Mancino, magari per aiutare Casini a resistere alle sirene berlusconiane in casa Vespa. Che cos’è, uno scherzo? Forse un appello (pardon, un monito) di Napolitano ai partiti perché tengano giù le zampe dal Csm sarebbe quantomai opportuno.



Museo Lombroso

Domenica 18 luglio 2010 – Anno 2 – n° 193

Museo Lombroso

Di fronte a certe facce e a certi cranii, si fatica a non riabilitare Lombroso. C'era proprio bisogno delle telefonate con Pasquale Lombardi (in arte “Pasquali'”) per trasferire il giudice Alfonso Marra (per gli amici “Fofò”)? Non bastava il suo riporto asfaltato a rastrelliera? Poi uno legge le sue dichiarazioni e capisce che, anche senza guardarlo o intercettarlo, bastava intervistarlo per capire tutto. Incontrando al bar un cronista di Libero, Marra s'è giustificato testualmente così: “Lombardi stava lingua in bocca con tutti”. Ma come parla il presidente della Corte d'appello di Milano, preferito mesi fa a un concorrente più titolato dal Csm dei Mancino e Carbone? “Quando iniziano a chiedere favori io li caccio - si vanta Marra - quando propongono sotterfugi, cose strane io dico: andatevene”. Cioè: qualcuno gli ha chiesto favori, sotterfugi e cose strane, cioè reati, e lui non ha mai sporto denuncia? Un altro giudice intercettato con la P3, Umberto Marconi, ammette candidamente sul Riformista l'amicizia con Ernesto Sica (quello del dossier anti-Caldoro) e col condannato Arcangelo Martino (quello che un anno fa confermò la balla di B. sul padre di Noemi autista di Craxi): “Una leggerezza... Sapevo che erano personaggi pericolosi, ho sopravvalutato le mie capacità di frequentarli senza venire coinvolto nei loro affari... Martino vantava aderenze a Roma, in particolare con Berlusconi. Per fare un favore a Sica lo chiamai per sincerarmi che potesse davvero fare qualcosa per Ernesto... A Roma c'è gente che mi vuol male: un parlamentare Pdl mi odia a morte, ha l'abitudine di distruggere chi gli fa del bene. Quando seppi che Mastella voleva candidarlo gli dissi: 'Sei pazzo?'. Questa persona ha sempre avuto rapporti coi servizi...”. Possibile che un alto magistrato parli così? Possibile che il Csm non trovi di meglio che spostare questi soggetti da un posto all'altro per “incompatibilità ambientale”, anziché spedirli a casa? Marconi non è un quivis de populo: è stato per vent'anni capo della corrente Unicost, ai vertici dell' Anm e addirittura nel Csm dove – a colpi di aderenze - ha sistemato centinaia di giudici e ora presiede la Corte d'appello di Salerno. Cioè: è la più alta autorità giudiziaria della città da cui il Csm dei Mancino e Carbone (ma anche di Napolitano) ha cacciato i pm Apicella, Verasani e Nuzzi perchè avevano osato scoprire che, a Catanzaro, c'era una cricca di magistrati corrotti che perseguitava De Magistris. Ora tutti si scandalizzano, si meravigliano, s'indignano. Pure il segretario dell'Anm Giuseppe Cascini: “Le indagini degli ultimi mesi dimostrano che esiste una questione morale grave e seria, da ultimo abbiamo visto che anche la magistratura e persino il Csm sono coinvolti in casi di inquinamento e malaffare”. Da ultimo? Cascini è lo stesso che non solo non difese, ma attaccò i tre pm salernitani perchè – orrore - avevano perquisito i colleghi calabresi inquisiti con un'ordinanza “troppo lunga”. Mai una parola sui colleghi calabresi inquisiti che il Csm dei Mancino e Carbone (ma anche di Napolitano) ha lasciato al loro posto. Nemmeno Caliendo e Martone erano dei passanti: sono stati addirittura presidenti dell'Anm, il sindacato delle toghe. Si saranno guastati “da ultimo” o sono sempre stati così? E che faceva la magistratura associata, a parte plaudire alla cacciata degli onesti? Miller e Gargani lavorano da anni al ministero, cooptati dai vari Castelli, Mastella e Alfano, noti distruttori della Giustizia. E Carbone era fino all'altro giorno (o forse è ancora) il candidato di B. alla presidenza della Consob. La malapolitica li premia per la loro cristallina indipendenza, o per il motivo opposto? È un caso se Al Fano e Al Nano, che han sempre insultato i migliori magistrati d'Italia, ora difendono quelli del giro P3? Se i politici che frequentavano il pregiudicato Carboni non hanno alibi, ne hanno pochi anche i magistrati che ora cadono dal pero. Come i commentatori che seguitano a menarla con la separazione dei pm dai giudici, anziché dei magistrati dai politici.

La rivespata

Sabato 17 luglio 2010 – Anno 2 – n° 192

La rivespata

La prima cena chez Vespa, quella che riuniva B. e figlia Marina, Piercasinando, Geronzi, Draghi, Letta-Letta e signora, il cardinal Bertone ovviamente Bruno con la sora Augusta, abbia ingelosito a morte tutto il resto del generone romano (a parte Tremonti, che ha tenuto a precisare di preferire un panino solitario al ministero, e Fini, che ha declinato l’invito nel timore di un avvelenamento). Così l’insetto paraninfo ha apparecchiato una seconda cenetta per gli esclusi dalla prima: praticamente gli sfigati, il cui numero è legione. Viene in mente “Lo shampoo” di Gaber che, nella seconda strofa, attacca con voce roca: “Seconda p a s s a t a . . .”. Ecco: alla seconda passata portaportese, un’ammucchiatina sulla terrazza di Propaganda Fide, si accalcavano sgomitanti – informa l’autore vole Signorini – Renato Schifani, l’ex autista ed ex avvocato di mafiosi (anch’essi di seconda fila) divenuto inopinatamente presidente del Senato; il capogruppo Gasparri col suo concentrato di neuroni e il dioscuro Cicchitto eccezionalmente scappucciato; i ministri pro tempore (ancora per poco) Gnazio La Rissa, Matteoli, Prestigiacomo, Galan e persino uno smunto Angelino Jolie, ridotto a larva umana dopo l’ottantesima riscrittura della legge bavaglio. Completavano il quadro la Renata Spolverini e un mazzetto di uomini Rai, come il dg Masi con nuova squinzia al seguito, i resti di Noisette Del Noce e il sempre elegante Augusto Minzolini, il lord Brummel de noantri, coi pantaloni aperti per ogni evenienza. In rappresentanza della sinistra estinta c’erano Fausto Bertinotti e la sora Lella, sempre graditi con tutto quel che han fatto per la destra. E poi una spruzzata di prenditori, tipo Bellavista Caltagirone, Giovannino Malagò e Moretti Polegato. Se la prima cena esclusiva, all’insegna dell’austerità e dell’alta politica, ha subito prodotto i risultati sperati (il ritorno di fregola fra Silvio e Pier e l’emendamento salva-Geronzi dell’on. Latronico, un nome una vocazione), la seconda passata è scivolata via così, sanza infamia e sanza lode. Pare che fosse tutto un trillare di cellulari, un concertone di suonerie pacchiane e uno schiamazzare in dolce stil novo a base di “ahò”, “te possino”, “chi nun more se r ivede”, “li mortacci tua”, un viavai di parvenu da ora di punta che ingollavano pesce crudo, mezzemaniche e calamaretti aiutandosi con le mani e pulendosi con la cravatta. Il Masi non stava fermo un minuto, sempre al telefono col direttore di Rai2 Massimo Liofredi, il cotonato con l’attaccatura bassa che resiste impavido agli assalti della Petruni per difendere la sua rete e completarne la distruzione senza intoppi. Insomma una seratina elegante, raffinata, stilosa, di quelle che opportunamente pubblicizzate potrebbero portare la Lega al 30 per cento. Spiccava l’assenza di qualunque traccia del Pd. Il che potrebbe anche essere un titolo di merito (certi inviti, diceva Longanesi, non basta rifiutarli: bisogna proprio non riceverli), sempreché si tratti di una scelta ponderata e non di una dimenticanza. Già, perché c’è pure il caso che l’insetto, sempre così sensibile al potere, si sia scordato i piddini perché non contano più nulla. Come certi mariti distratti che dimenticano le mogli all’autogrill. Del resto questa crisi epocale da fine impero prescinde totalmente dal centrosinistra. Ministri e sottosegretari cadono l’uno dopo l’altro per volontà di Fini, non del Pd. Bersani, che ormai parla come Giovanni Rana, è segnalato negli States, forse per contribuire al crollo della popolarità di Obama (ne sa qualcosa Ségolène Royal, che si giocò le ultime chance presidenziali quando Fassino andò a darle una mano contro Sarkozy). Né lui né D’Alema, per non disturbare, han detto una parola chiara sulla condanna in appello di Dell’Utri. Anzi, Max s’è precipitato in soccorso di B. con la proposta di un bel governo di larghe intese. Al punto che non si comprende perché mai B. voglia rimpiazzare Fini con quello smorfiosetto di Casini, quando c’è il Pd a disposizione. Gratis.

L’ultimo spenga le luci

Venerdì 16 luglio 2010 – Anno 2 – n° 191

L’ultimo spenga le luci

Gianfranco Rotondi, il ministro con la testa a kiwi e la delega all’Attuazione del programma (praticamente un disoccupato), l’aveva detto dopo le dimissioni di Scajola: “Attenti, si crea un pericoloso precedente”. Se passa l’idea che un ministro coinvolto in uno scandalo, tipo che non sa chi gli ha pagato la casa, si deve dimettere per così poco, chissà dove si andrà a finire. Non l’hanno ascoltato. Così, nell’ordine, anzi a trenino, dietro Scajola han preso la porta anche Brancher (che era appena entrato) e Cosentino (che, per ovvi motivi, non voleva uscire). Per i prossimi, Verdini e Caliendo, è questione di giorni. La decimazione del governo B3 per lo scandalo P3 ricorda il giallo di Agatha Christie Dieci piccoli indiani. Ma soprattutto il primo governo Amato, che tra febbraio e marzo del 1993 perse per strada cinque ministri inquisiti (Martelli, Fontana, Goria, Reviglio, De Lorenzo), più un sesto (Ripa di Meana) sdegnato per una simile compagnia. Dopodiché Amato, rimasto solo, chiuse porte e finestre, spense le luci e salì al Quirinale per dare le dimissioni: il suo governo si era trasferito a Palazzo di Giustizia. In quei mesi B, con la collaborazione di Dell’Utri e qualche visitina di Mangano, stava creando Forza Italia per prendere il posto di quella che lui stesso definì a reti unificate “la vecchia classe politica travolta dai fatti e superata dai tempi” dopo l’“autoaffondamento dei vecchi governanti schiacciati dal peso del debito pubblico e del sistema del finanziamento illegale dei partiti”. Quindi, con le sue tv e i suoi giornali, soffiava sul fuoco di quello che oggi dipinge, sgomento, come “un clima giustizialista e giacobino”. Perché oggi tocca a lui. Quando ammonisce i giudici a lasciar perdere Flavio Carboni perché “non si arresta un uomo di 78 anni”, sta pensando a se stesso, che ne ha 74. Silvio e Flavio sono vecchi compari, anzi confratelli piduisti, han fatto affari insieme, sono alti un metro e una spanna, portano tacchi, parrucchino e bypass. Due gemelli: uno dentro, l’altro ancora a piede libero. Flavio, parlando astutamente in codice di lui, lo chiamava “C e s a re ” con un cifrario a metà fra Shakespeare e Totò & Peppino: “Il dossier è arrivato nella stanza di Cesare, i tribuni gli hanno già dato la notizia”. Il guaio è che Cesare, più che il condottiero della campagna di Gallia, ricorda il Caligola che fece senatore il suo cavallo (ora però siamo passati ai somari) e il Romolo Augustolo che accompagnò l’Impero alla decomposizione definitiva. La banda del buco si sta disunendo, sente i rintocchi del Dies Irae e si abbandona a un arraffa-arraffa scomposto, disperato, da ultime ore di Pompei. Come quelle bande di topi d’appartamento che, sentendo suonare l’allarme della casa e in lontananza le sirene della polizia, si riempiono le tasche con le ultime posate d’argento e gli ultimi gioielli alla rinfusa prima della fuga. Lui, Cesare Silviolo, dà una potatina qua e là per tagliare le mani più prensili e salvare almeno l’argenteria di famiglia, lui stesso stupefatto dalla rapidità di apprendimento degli allievi che stanno superando il maestro. Intanto, sul Corr iere, Massimo Franco spaccia questa guerra per bande per un’opera di moralizzazione e si complimenta molto con B. perché “ha fatto la scelta giusta” scaricando i rapinatori più smodati con una “decisione saggia” allontanando un’“immagine di impunità” e il sospetto che “nella penombra del grande albero berlusconiano si fossero annidati segmenti di società che usano il governo come guscio dentro il quale ingrassare i loro comitati d’affari”. Ecco, questo no, questo mai: sospettare che qualcuno usi il governo B. per fare affari e conquistare impunità sarebbe inammissibile: fortuna che B, notoriamente alieno dagli affari e dall’impunità, sta “saggiamente” provvedendo a fare pulizia. C’è da augurarsi che il Pompiere della Sera non scopra mai che B. ha più processi di Scajola, Brancher, Cosentino e Verdini messi insieme: altrimenti potrebbe persino sfuggirgli un “ohibò”.