C'E' MAFIA E MAFIA


Domenica 28 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 50
C'E' MAFIA E MAFIA


Solidarizzare col senatore Di Girolamo sarebbe eccessivo. Ma condividere il suo stupore per lo sdegno generale che lo circonda, anche tra gli alleati e i presunti oppositori del Pd che due anni fa l’avevano salvato dall’arresto (unici contrari gli Idv) e ora lo vogliono cacciare, questo sì, si può fare. Non si comprende la differenza fra il suo caso, che ha portato persino Berlusconi a scaricarlo, e quelli di Dell’Utri e Cuffaro. Anzi l’unica differenza è a suo favore: Dell’Utri è stato condannato in primo grado per mafia, Cuffaro in appello per favoreggiamento alla mafia, Di Girolamo non ancora. Ha “solo” un mandato di cattura per rapporti con la ‘ndrangheta. Come Cosentino, che però starebbe con la camorra e dunque resta sottosegretario. Si dirà: Di Girolamo è stato fotografato con un boss e le cosche votavano per lui. Ma vale pure per Cuffaro, che fu filmato con due medici mafiosi: Vincenzo Greco, condannato per aver curato il killer di don Puglisi, e Salvatore Aragona, condannato per aver fornito un alibi falso al boss Enzo Brusca. Entrambi legatissimi al boss Giuseppe Guttadauro, che Cuffaro fece avvertire delle microspie a casa sua. Per Dell’Utri c’è solo l’i m b a ra z z o della scelta. Dal 1974 e il ‘76 infila un mafioso, Vittorio Mangano, in casa di Berlusconi: assunzione suggellata – scrive il Tribunale di Palermo – da un incontro a Milano fra il Cavaliere, Dell’Utri e i boss Bontate, Teresi e Di Carlo. Nel 1976 partecipa – l’ammette lui stesso – al compleanno del boss catanese Antonino Calderone, insieme ai mafiosi Mangano, Nino e Gaetano Grado. Nel ’77 va a lavorare per Filippo Rapisarda, legato a mafiosi come Vito Ciancimino e il clan Cuntrera-Caruana. Nel 1980 partecipa – l’ammette lui stesso – a Londra alle nozze di Jimmy Fauci - pregiudicato siciliano legato ai Caruana, addetto al traffico di droga fra Italia, Gran Bretagna e Canada - con i mafiosi Di Carlo, Teresi e Cinà. Nel 1992 il boss di Trapani, Vincenzo Virga, minaccia l’imprenditore Garraffa per perorare la causa di un presunto credito in nero reclamato da Dell’Utri (Virga e Dell’Utri si salveranno grazie alla prescrizione del reato di minacce gravi). Intanto Dell’Utri ottiene un provino al Milan per Gaetano D’Agostino, figlio di un complice dei Graviano. Nel 1993, mentre lavora al progetto Forza Italia, Dell’utri s’interessa al movimento mafioso “Sicilia L i b e ra ”: i suoi contatti con uno dei fondatori, il principe Napoleone Orsini, risultano da agende e tabulati. In novembre ancora le sue agende rivelano due incontri a Milano, nella sede di Publitalia, con Mangano, appena uscito da 11 anni di galera per mafia e traffico di droga. Nel 1998 la Dia fotografa Natale Sartori (socio della figlia di Mangano in alcune cooperative di pulizie) mentre rende visita al neodeputato Dell’Utri. Pochi mesi dopo la Dia filma un incontro a Rimini fra Dell’Utri e un falso pentito, Pino Chiofalo, che organizza un complotto contro i pentiti veri. Nel ‘99 Dell’Utri si candida al Parlamento europeo: un fedelissimo di Provenzano intercettato in un’autoscuola raccomanda ai picciotti di votare per lui: “Dobbiamo portare e aiutare Dell’Utri, sennò lo fottono. Se sale alle Europee non lo tocca più nessuno…‘sti sbirri non gli danno pace”. Nel 2001, vigilia delle politiche, il boss Guttadauro parla con Aragona: “Con Dell’Utri bisogna parlare, alle elezioni ’99 ha preso impegni (col boss Capizzi, ndr) e poi non s’è fatto più vedere”. Aragona: “Io sono stato invitato al Circolo, sede culturale di Dell’Utri in una biblioteca famosa”. Nel 2003 Vito Palazzolo, boss latitante in Sudafrica, contatta Dell’Utri tramite intermediari (tra cui la moglie) perché prema sul governo Berlusconi per sistemare i suoi guai giudiziari. Di Girolamo, al confronto, è un principiante. Ma ha un grave torto: “L’ha portato An”, dice il Banana, dunque l’inchiesta non è talebana né a orologeria: “È una cosa seria”. Ha sbagliato partito e soprattutto banda: se stava con la mafia o con la camorra, come minimo sarebbe sottosegretario.

FELTRI, L'ARMA LETALE


Sabato 27 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 49
FELTRI, L'ARMA LETALE


Le bugie dei berluscones sono come gli esami di Eduardo: non finiscono mai. Il Banana mente sui suoi affari e i suoi bilanci degli anni Ottanta. Poi arriva la Guardia di finanza e, per nascondere le bugie, la Fininvest corrompe i finanzieri. Ma poi questi confessano le tangenti Fininvest e lui racconta altre balle. Ma viene chiamato a testimoniare Mills, che potrebbe smentire le sue balle. Allora viene corrotto anche Mills perché racconti balle pure lui. Ma poi Mills dice la verità al suo commercialista e il Banana deve raccontare altre balle. Ma la Cassazione non gli crede e dichiara colpevole Mills, ma prescritto. Il Banana invece è colpevole ma non prescritto, perché il lodo Alfano ha congelato il suo processo per un anno e mezzo, ergo la sua prescrizione scatterà solo nella primavera 2011. E, siccome la sentenza definitiva Mills “fa stato” anche nel processo al Banana, il processo al Banana potrebbe durare molto poco. Se i giudici si sbrigano a fare il primo grado e l’appello entro Natale, la Cassazione dovrà esaminare il caso prima che si prescriva. In ogni caso c’è tempo per arrivare almeno alla sentenza di primo grado. Insomma il verdetto di Cassazione è una pessima notizia per il Banana. Infatti lui tace. I suoi invece, per forza d’inerzia, continuano a raccontare balle. “Vittoria di Berlusconi. Schiaffo della Cassazione ai pm”, titola il Geniale in prima pagina, riservando però il meglio a pag. 3: “Silvio perseguitato, ma nessuno paga. Il processo che ha danneggiato l’immagine di Berlusconi e influito sulla vittoria di Prodi nel 2006 non si doveva fare. Il Cav e gli italiani dovrebbero essere risarciti”. Per il momento sarà Mills a risarcire gli italiani con 250 mila euro per essersi fatto corrompere da Mr.B. “Silvio assolto”, titola L i b e ro anzi Occupato, poi sotto scrive il contrario: “S a ra n n o prescritte le accuse al presidente”. Ma neanche questo è vero: il reato di Mills è prescritto, quello di Berlusconi no. Littorio Feltri, noto giureconsulto, sostiene che “molti avversari di Berlusconi saranno stizziti dopo la sentenza di Cassazione”: pover’uomo, se l’avesse capita sarebbe stizzito lui, almeno quanto il suo padrone. Ma per fortuna non l’ha capita, infatti scrive: “Pertanto il Cavaliere, lodo Alfano o non lodo Alfano, non dovrà presentarsi in tribunale per discolparsi”. Splendido: ecco, speriamo che non si presenti, così intanto lo processano in contumacia. Speriamo che dia retta a Feltri: “Se non c’è più il corrotto non ci può più essere il corruttore” (il corrotto deve sborsare 250 mila euro di risarcimento, ma è innocente). Dunque il premier “può cantare vittoria e affrontare serenamente il futuro” perché “quella della Cassazione coincide con la linea difensiva di Ghedini”. Secondo il mèchato di L i b e ro , siccome il reato si è prescritto tre mesi fa per Mills e si prescriverà fra un anno e messo per Mr.B, “il processo non doveva neanche i n i z i a re ”. Curiosamente però, nonostante gli incitamenti di Littorio e di Mister Mèches, il Banana si guarda bene dal cantare vittoria. E Ghedini men che meno: anzi, dice di “non essere soddisfatto”, avrebbe preferito “la declaratoria di innocenza ‘perché il fatto non sussiste’, non la prescrizione”. A questo punto, non resta che aspettare. Se le cose stanno come scrivono i giuristi per caso di casa Banana e come ripete la loro pròtesi televisiva Scodinzolini, la legge sul processo breve evaporerà alla Camera. Il legittimo impedimento svanirà in Senato. L’èra delle leggi ad personam miracolosamente finirà. E il Banana potrà “affrontare serenamente il futuro ”. Noi, per il suo bene, ci permettiamo di suggerirgli di diffidare dei suoi signorini grandi firme e di procedere a piè fermo a un’altra vagonata di leggi ad personam. Non vorremmo che fra un anno si ritrovasse condannato per corruzione giudiziaria e se la prendesse con Feltri. Il quale ha già dato molto alla causa dell’opposizione, inimicandogli mezzo Vaticano col caso Boffo. Se facesse pure condannare il Banana, Littorio non se lo prenderebbe più nessuno. Nemmeno il Pd.

IL CANTO DEI GALLI


Venerdì 26 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 48
IL CANTO DEI GALLI


Il professor Ernesto Galli della Loggia s’interroga pensoso sul Pompiere della Sera a proposito de “La corruzione e le sue radici”. L’agile trattatello, diversamente dal solito, non è né inutile né dannoso: serve anzi a comprendere come si è ridotta la classe intellettuale italiota, incapace di vedere, capire, spiegare, proporre, elaborare un’idea originale al di fuori del déjà vu, del luogo comune, dell’eter no conformismo. La tesi di fondo è stimolante e soprattutto inedita, almeno per chi non frequenta i bar sport: è tutto un magna magna. “La verità è che è l’Italia la causa della corruzione italiana”, visto che rubano tutti: chi trucca concorsi, chi froda il fisco, chi si fa la casa abusiva, chi raccomanda amici e parenti nei posti pubblici, chi gonfia le tariffe dei servizi. Ma va? “In molti altri paesi – filosofeggia l’acuto pensatore – comportamenti del genere sono severamente sanzionati anche sul piano penale. Da noi no, sono considerati normali. Perché?”. In realtà i suddetti comportamenti sono reato anche in Italia. Ma, non appena un magistrato si azzarda a scoprirli e sanzionarli, indagando, intercettando, arrestando o condannando qualcuno, c’è sempre qualche gallo della loggia o pollo del balcone che si mette a strillare all’invasione di campo della magistratura, alle toghe rosse, ai processi politici, allo scontro fra giustizia e politica, al giustizialismo, alle manette facili, invocando separazioni delle carriere, immunità, lodi Schifani e Alfani. Quando Mastella e signora furono beccati a lottizzare tutto il lottizzabile in Campania, dalle Asl ai canili, fu tutto un coro di “embè? così fan tutti”. Se, come scrive il sagace politologo, “Mani Pulite non ha segnato una svolta”, “è stato tutto inutile ”, “la corruzione italiana appare invincibile”, non è certo colpa dei magistrati. A loro spetta scoprire e punire i reati già commessi. Per impedire o almeno ridurre la possibilità che altri se ne commettano, bisogna rendere più severe le sanzioni e più stringenti i controlli. In questi 18 anni s’è fatto l’opposto. Su circa 200 “riforme della giustizia” approvate dal 1992 a oggi, nemmeno una ha reso più difficile o rischiosa la corruzione e più facile la sua scoperta. Anzi, tutto il contrario. Su quale pianeta, in quale galassia ha vissuto Galli della Loggia per tutto questo tempo? Ha mai scritto un rigo contro le leggi che depenalizzavano l’abuso d’ufficio, le false fatture e il falso in bilancio, allungavano i processi e dimezzavano la prescrizione, sbiancavano i fondi neri all’estero, abolivano i processi alle alte cariche specie quella bassa, condonavano frodi fiscali e abusi edilizi? Si sta forse battendo contro il processo breve anzi morto, il legittimo anzi illegittimo impedimento, l’abolizione delle intercettazioni? Ha mai proposto una sola legge anticorruzione? Ora scopre che “le tangenti continuano a girare vorticosamente anche nel privato”: s’è mai accorto che nel 1999 l’Italia siglò la convenzione del Consiglio d’Europa contro la corruzione (che impone di punire pure le tangenti fra privati), ma si è sempre “dimenticata” di ratificarla? Perché dal suo pulpito, o dalla sua loggia, o dal suo balcone, anziché menarcela con la separazione delle carriere o lo scontro fra giustizia e politica, Galli non ha mai lanciato una campagna per sollecitare quella ratifica? Perché un mese fa i mejo commentatori del Pompiere (a parte Magris e Bragantini) si sono associati alla beatificazione di un corrotto latitante come Bottino Craxi e oggi si meravigliano se si continua a rubare? In coda al trattatello, il geniale pennuto invita tutti a “guardare a fondo dentro di noi e dentro la nostra storia”. Basterebbe guardare a fondo quel che scriveva lui nel 1992-’93 quand’era lucido e quel che ha scritto (ma soprattutto non ha scritto) dopo. Anziché scomodare il gene italico, per spiegare la corruzione basta la rassegna stampa dell’ultimo ventennio: è piena zeppa di intellettuali che, anziché smascherare le imposture del potere, gli prestano le parole per nasconderle meglio.

VIVA CRAXI, ABBASSO I CORROTTI


Giovedì 25 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 47
VIVA CRAXI, ABBASSO I CORROTTI


Dice Napolitano, a chi gli domanda delle nuove tangenti: “Chiedete ad altri”. Lui infatti un mese fa giustificava quelle vecchie, scrivendo alla vedova Craxi che il marito esule fu “trattato con una durezza senza eguali”, e ora commemora Pertini. Dice Schifani, con rispetto parlando, che “i partiti si devono imporre rigore nella selezione della classe dirigente, a volte non candidando chi è condannato non in via definitiva”. Lui infatti, un mese fa in Senato, beatificava Craxi, condannato in via definitiva per corruzione e morto latitante, chiamandolo “vittima sacrificale”. Dicono Brunetta e Sacconi che ha torto Montezemolo quando per la nuova corruzione accusa la politica, perché loro sono impegnatissimi a combatterla: infatti un mese fa, per combatterla meglio, stavano sulla tomba del corrotto Craxi. Dicono Fini e Berlusconi, una volta tanto all’unisono: “Non c’è una nuova Tangentopoli”. Perché, anche se ci fosse, cambierebbe qualcosa? Non era un complotto delle toghe rosse manovrate dalla Cia, l’inchiesta su Tangentopoli? Non erano dei martiri perseguitati politici, i condannati per Tangentopoli? Non sedevano tutti in prima fila al Senato alla canonizzazione di San Bottino, i pregiudicati Forlani, De Michelis e De Lorenzo? Si dice che bisogna aspettare le condanne definitive: ma, anche se arrivassero, cambierebbe qualcosa? Craxi non era un condannato definitivo? Come può una classe politica, fino alle più alte cariche dello Stato, avere la credibilità di parlare di corruzione se un mese fa era allineata e coperta a beatificare uno dei simboli della corruzione? Come può sperare che all’estero la prendano sul serio? La stampa internazionale, dall’Economist a Le Monde, un mese fa ci prendeva in giro come un paese di smemorati e di cialtroni. Ora che dalla santificazione dei corrotti si passa, ovviamente a parole, alle leggi anticorruzione, seguiteranno a considerarci la patria di Pulcinella. Bossi vuol fare piazza pulita dei condannati: ma se lo ricorda di essere pure lui un condannato per la maxi-tangente Enimont? La Russa dice che “il limite sta nel rinvio a giudizio: al di sotto non c’è problema, al di sopra ci sarà un invito a non candidarsi”: ma se lo ricorda che il capo del suo partito, tale Banana, è stato rinviato a giudizio per corruzione di Mills e per frode fiscale, appropriazione indebita e falso in bilancio sui fondi neri Mediaset? Il sagace Gasparri, a proposito del sen. Di Girolamo, dice che “nessuno è intoccabile”: e allora perché il suo partito, meno di due anni fa, votò contro l’arresto del sen. Di Girolamo accusato di 7 capi d’imputazione per aver truccato le carte della sua elezione fra gl’italiani all’estero mentre risiedeva in Italia (presso una nota cosca della ‘Ndrangheta)? E perché la giunta per le elezioni del Senato trovò il modo di non espellere neppure il senatore abusivo? Chi era il capogruppo del Pdl al Senato? Per caso, Gasparri ha mai sentito parlare di Gasparri? Piercasinando parla come Grillo al V-Day: “Basta con i ladr i”. Forse scherza. Chi ha fatto nominare segretario Udc Lorenzo Cesa, arrestato nel ’93 perché incassava le tangenti per conto del ministro Prandini e reo confesso in un memorabile verbale che inizia con le parole “ho deciso di vuotare il sacco”? Chi ha portato in Parlamento Giuseppe Drago, già presidente della regione Sicilia, dopo che era stato condannato in primo grado per peculato per avere svaligiato la cassa dei fondi riservati del governatore asportando 230 milioni di lire? Un certo Casini. Per caso, Casini ha mai sentito parlare di Casini? Angelino Jolie, poveretto, dice restando serio che “Berlusconi ha posto l’onestà come precondizione della politica… perché, da uomo ricco, non ha bisogno di prendere mazzette e dunque è insospettabile di tangenti”. Infatti le tangenti non le prendeva: le pagava. Ma forse è questa la formidabile legge anticorruzione che ha in serbo l’onorevole Angelino: chi prende tangenti, in galera; chi le paga, a Palazzo Chigi.

SVISTE PULITE


Mercoledì 24 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 46
SVISTE PULITE


Davvero spassoso il dibattito sulle “liste pulite” avviato dal titolare delle liste più luride della storia dell’umanità. Politici, giornalisti, intellettuali e giuristi per caso si esercitano intorno al tema della corruzione con gli stessi esiti di Emanuele Filiberto che tenta di cantare, di Gasparri che tenta di ragionare e di Angelino Jolie che tenta di scrivere una legge anticorruzione. Si impegnano, si applicano, ma non ce la fanno proprio. Non è il loro ramo. Sono troppo abituati a spostare l’attenzione dalle mazzette al colore della toga del giudice che le ha scoperte o della camicia del giornalista che le ha raccontate, per riuscire a dire qualcosa di sensato. Così non fanno altro che rinfacciarsi le reciproche mazzette: tu ne hai prese più di me, tu hai più condannati di me, tu hai più processi di me. Ieri il Geniale, copiando i nostri libri e le denunce di Grillo, elencava i condannati e gli inquisiti in Parlamento. Solo quelli di Pd e Udc, ci mancherebbe: per quelli del Pdl occorrerebbe una Treccani in vari volumi. In prima pagina, direttamente dalla famiglia Addams, Alessandro Sallusti si inerpicava sul tema per elogiare il Pdl del padrone, “unico partito ad affrontare una questione vera e non più rinviabile”. Ma va? Benvenuto nel club. Sulle prime zio Tibia partoriva persino un concetto sensato: non sempre, per cacciare un politico imputato, bisogna attendere la Cassazione. Poi però si perdeva per strada, vaneggiando di misteriosi “reati civili e amministrativi”. Infine perdeva la brocca parlando del Banana: i suoi processi sono speciali, rientrano nella “zona grigia della giustizia”. E’ quel che dice pure Cicchitto, altro neofita dell’argomento: l’a l t ra sera a Porta a Porta tentava teneramente di conciliare le liste pulite e il Banana. Impresa titanica: “Sia chiaro che contro Berlusconi c’è un uso politico della giustizia, contro Bertolaso pure, mentre sugli altri si può discutere”. Ecco, i processi buoni e quelli meno buoni li decide lui: indossa cappuccio e grembiulino, poi scrive le sentenze. L’ottimo Belpietro, per non sbagliare, affida il commento a Giancarlo Abelli, contitolare del conto a Montecarlo per cui la sua signora ha appena patteggiato 2 anni per riciclaggio e restituito 1,2 milioni di maltolto: un’autorità in materia di liste pulite. Formidabili le prediche anticorruzione del duo Marcegaglia&Montezemolo, presidente ed ex presidente del più popoloso consesso di corruttori mai visto in natura: la Confindustria. Che ora espelle chi paga il pizzo per non esser ammazzato dalla mafia, cioè le vittime di concussione, ma non ha mai messo alla porta un solo iscritto che paga tangenti. Anche perché la sora Emma dovrebbe espellere se stessa, o almeno il fratello e il papà, titolari del gruppo di famiglia che due anni fa ha patteggiato a Milano 500 mila euro di pena pecuniaria e 250 mila di confisca per Marcegaglia Spa, 500 mila euro di pena più 5 milioni di confisca per la controllata NE Cct Spa, 11 mesi di reclusione per Antonio Marcegaglia (fratello di Emma, figlio di Steno): il tutto perché nel 2003 pagarono una mazzettona all’Enipower in cambio di appalti. Ora Montezemolo sostiene che la corruzione dilaga perché i politici “non hanno fatto le riforme”. Forse voleva dire “perché hanno fatto le riforme”: in 15 anni hanno sfornato 200 leggi in materia di giustizia, tutte a favore della corruzione e nessuna contro. E la Confindustria non ha mai emesso un pigolio contro condoni fiscali, scudi, depenalizzazioni del falso in bilancio, allungamenti dei tempi dei processi e tagli dei termini di prescrizione. Ma niente paura: Renato Brunetta assicura che all’anticorruzione ci pensa lui. Nella Prima Repubblica, Brunetta era consulente del ministro De Michelis; nella Seconda, divenuto ministro, ha ingaggiato come consulente De Michelis. Il giusto premio per le condanne collezionate da De Michelis per finanziamento illecito e corruzione. Ecco, la legge anticorruzione potrebbe scriverla lui. Dopo tanti dilettanti, finalmente un professionista.

BERTOLDO, BERTOLDINO E BERTOLASO


Martedì 23 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 45
BERTOLDO, BERTOLDINO E BERTOLASO


Mentre tutto frana e i tappi saltano, ci restano due o tre certezze, due o tre punti fermi a cui appigliarci. E dobbiamo ancora una volta ringraziare il Pompiere della Sera per averceli regalati. Il primo è il nepotismo. Pensavate che fosse na cosa brutta? Nossignori. L’ambasciatore Romano indossa la feluca e sentenzia: “Vi sono occasioni e circostanze in cui la scelta di un uomo o di una donna non dipende soltanto dal loro profilo professionale, ma anche dal clima di sintonia, affinità culturale e fiducia reciproca che occorre sul luogo di lavoro. Nella diplomazia e nella politica… La trasmissione di un mestiere da una generazione a un’altra non è soltanto nepotismo”. Evviva: ritorna la legge salica, la trasmissione delle cariche di padre in figlio. Wow, come siamo moderni! La seconda certezza è Bertolaso specializzato, più che nel nepotismo, nel cognatismo. Nonostante tutto ciò che emerge ogni giorno a suo carico (anche dalle cronache del Corr iere), è già tornato in odore di santità. Fior da fiore dal severo ritratto di Fabrizio Roncone. “Nervi di ferro”. “Forza d’animo”. “Il comandante”. “Occhi di ghiaccio”, e questo “non è un altro stupido modo di dire”. Anzi. Davanti a San Guido, il cronista innamorato scopre pure “dosi di innegabile astuzia dialettica” e “una calma che può venire solo dal talento e dal mestiere”. “R a s s i c u ra n t e ”. “Lucido, da subito”. “Sicuro, netto”. “Alla sua posta elettronica scrivono a centinaia”. E poi “un mucchio di sms”, non solo da Anemone. “Il coraggio spavaldo con cui prima indossa un abito grigio davanti alla commissione Ambiente (applaudito da una scolaresca) per dire ‘sono dimissionario, ma resto perché il governo me lo ch i e d e ’; poi, al tramonto, infila il maglioncino blu da battaglia e accetta di essere ospite a Ballarò, dove gli fanno trovare Di Pietro”. Non una massaggiatrice: Di Pietro. “Rischia, e gli va bene. La voce non gli si spezza, tutt’a l t ro ”. Alla fine “molti del pubblico gli chiedono a u t o gra fi ”. Forse anche l’implacabile Floris. “Scena destinata a ripetersi a Matr ix”, dove lo mette all’a n go l o il feroce Lesso Vinci. E la moglie Gloria intanto che fa? “Tace composta”. E le figlie Chiara e Olivia? “Scrivono una commossa lettera”. E lui? “Capisce che è il momento di tornare sull’e l i c o t t e ro ”. E via, verso le nuove catastrofi calabro-sicule contro cui la Protezione civile non ha fatto una mazza, ma lui non c’era, e se c’era dormiva, e se non dormiva lasciava sperperare 300-600 milioni per il G8 fantasma alla Maddalena o per le piscine troppo lunghe per i Mondiali di Nuoto. Infatti la gente gridava evviva. Lui, come sempre: mettendo su la faccia d’uno di cui ci si può fidare”. Se si ha la fortuna di rimanere vivi. Sistemato Bertolaso, il Pompiere si dedica al “principe tronista”, al secolo Emanuele Filiberto di Savoia, che in pochi mesi è riuscito a trasformare gli ultimi monarchici in sfegatati repubblicani e, in un solo Festival, a sputtanare quel che resta della cultura di destra con la partecipazione straordinaria di Pupo e Lippi. Un trust di cervelli. Del nobiluomo si occupa Aldo Cazzullo, altra penna acuminata. “Piace a una vasta platea degli italiani”. Del resto “nutrire sentimenti negativi per lui è davvero difficile”. “Bello, educato, sempre sorridente anche sotto i fischi”. Ecco: non è una paresi, è un sorriso. “Pettinato da cristiano e vestito da manager: camicia bianca, giacca e cravatta, però con risvolti tricolori”. “Se Umberto non riconobbe mai la Repubblica, se Vittorio Emanuele pasticciò con parole contraddittorie, il giovane principe non si è mai posto il problema”. Che non conosca la differenza fra Monarchia e Repubblica? No, è che “si è gettato nello star system battendo prima la strada della politica”. Nell’Udc. Risultato: 4 mila voti, 0,4%, la prova che piace a una vasta platea. Complice lo spot delle olive, suscita “l’orgoglio emotivo per il paese più antico e bello del mondo”. Tant’è che addirittura “dialoga in eurovisione con Pupo”. Come diceva Montanelli, “i Savoia sono come le patate: la parte migliore è sottoterra”.

ALL YOU NEED IS LAW

Domenica 21 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 44
ALL YOU NEED IS LAW


Ci hanno provato, e di questo gli siamo grati. Ma alla fine i legislatori pret à porter del Banana han dovuto arrendersi: è più forte di loro, una legge anti-corruzione non gli viene proprio, esula dalle loro umane possibilità. Mettiamoci nei loro panni: l’a l t ro giorno all’improvviso, dopo una vita spesa a sfornare leggi pro-corruzione, Angelino Jolie e la sua badante, al secolo Niccolò Ghedini, vengono convocati dal capo per una mission impossible: “Ragazzi, stavolta dovete farmi una legge contro la corruzione. No, non sono impazzito, è la gente che è incazzata. Fate voi, mettetecela tutta, leggete qualche libro, ce la potete fare”. Il duo Ad Personam si mette all’opera. Anzitutto consulta il dizionario della lingua italiana, alla voce “anti-cor r uzione”, ma non trova la pagina, a suo tempo strappata per non cadere in tentazione. I due chiedono in giro fra amici e clienti, ma niente da fare: nessuno che li aiuti a decodificare il criptico concetto. Vanno capiti: non s’erano ancora riavuti dalle ultime cinque leggi pro-corruzione - lodo Alfano bis, processo morto, legittimo impedimento, impunità parlamentare e anti-intercettazioni – e quello pretende che vadano contro natura. Come chiedere a Basaglia si riaprire i manicomi e alla Merlin i bordelli. Angy & Nick provano e riprovano, alzano pene di qua, le abbassano di là, infilano tre reati e ne escludono sei (quelli del capo), dividono, sottraggono, aggiungono, estraggono radici quadre, moltiplicano pigreco e alla fine presentano un testicolino che fa ridere perfino il Banana: “Avevo detto anti, non pro!”. Pare che quel buontempone di Ghedini, per combattere meglio la corruzione, avesse pensato di ridurre da 8 a 6 anni la pena massima per la corruzione giudiziaria, guardacaso quella per cui sono imputati il Banana e Mills. E, siccome nelle norme sostanziali vale sempre la più favorevole al reo, la norma avrebbe incenerito all’istante il processo. La forza dell’abitudine. La cosa è parsa eccessiva financo al Banana, che l’ha rinviata in attesa di tempi migliori. Peccato, perché l’a m b a s c i a t o re Romano aveva già indossato la feluca d’ordinanza per prenderla sul serio: “Un buon segnale”, l’ha definita sul Pompiere. Invece Feltri e Ferrara han subito colto l’aspetto eversivo di un’eventuale legge anticorruzione: solo a sentirla nominare, han messo mano alla fondina. Il Giornale l’ha nascosta da par suo (ieri apriva sul traffico urbano, alla Johnny Stecchino), manganellando quel mariuolo di Fini che osa pronunciare la parola “l e g ge ”. Il Foglio chiede al capo se sia diventato matto: “Deputati in rivolta, sgomento per l’ineleggibilità degli inquisiti che consegna le liste ai pm”. Meglio consegnarle ai ladri. L i b e ro , anzi Occupato, è bipartisan: pubblica commenti sia pro sia contro i ladri. Memorabile quello di Pomicino, l’esperto: “Non serve una legge per essere onesti”. E lui, dall’alto del patteggiamento per corruzione e della condanna per finanziamento illecito, ne è la prova vivente. Ma il bello deve ancora venire: il Banana prepara le “liste pulite”. Fuori indagati e condannati, dentro le igieniste dentali. “Via dai partiti chi commette reati”. Esclusi i presenti, si capisce. Pare che abbia cazziato il povero Verdini, beccato a fare un millesimo di quel che ha sempre fatto lui: affari privati con soldi pubblici. E senza neppure avvertirlo per dividere. Ora s’a n nu n c i a un giudizio universale a Palazzo Grazioli. Decine di forzisti hanno smesso di dormire a casa. I primi convolati dovrebbero essere Sciascia e Berruti, condannati l’uno per le tangenti Fininvest alla Finanza, l’altro per aver depistato le indagini: “Ragazzi, ma davvero corrompevate e depistavate a nome mio senza dirmi niente? A saperlo ve l’avrei impedito”. Seguirà Previti: “Cesare, mi dicono che avresti corrotto un giudice con soldi miei per regalarmi la Mondadori: non potevi avvertirmi? L’avrei subito restituita”. L’ultimo, per motivi precauzionali, sarà Dell’Utri: “Marcello, si vocifera di uno stalliere, tale Mangano, in casa mia. Ne sai per caso qualcosa?”.

LETTERA A MICHELE SANTORO

Sabato 20 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 43
LETTERA A MICHELE SANTORO


Caro Michele, ho riflettuto su quanto è accaduto giovedì ad A n n o ze ro . E, siccome è accaduto davanti a 4 milioni di persone, te ne parlo in forma pubblica. Parto da una tua frase dell’a l t ra sera: “Parliamo di fatti”. Il punto è proprio questo. Si può ancora parlare di fatti in tv? Sì, a giudicare dagli splendidi servizi di Formigli, Bertazzoni e Bosetti. No, a giudicare dal cosiddetto dibattito in studio, che non è più (da un bel pezzo) un dibattito, ma una battaglia snervante e disperante fra chi tenta di raccontare, analizzare, commentare quel che accade e chi viene apposta per impedirci di farlo e costringerci a parlar d’altro. La maledizione della par condicio, dovuta alla maledizione di Berlusconi, impone la presenza simmetrica di ospiti di destra e di sinistra. E, quando si tratta di politici, pazienza: la loro allergia ai fatti è talmente evidente che il loro gioco lo capiscono tutti. Ma quando, come l’altra sera, ci si confronta fra giornalisti, anzi fra iscritti all’albo dei giornalisti, ogni simmetria è impossibile: quelli “di destra” parlano addosso agli altri e – quando non sanno più che dire – tirano fuori le mie condanne penali (inesistenti) o le mie vacanze con mafiosi o a spese di mafiosi (inesistenti). Da una parte ci sono giornalisti normali, come l’altra sera Gomez e Rangeri, che non fanno sconti né alla destra né alla sinistra; e dall’altra i trombettieri. Che non sono di destra: sono di Berlusconi. E non fanno i giornalisti: recitano un copione, frequentano corsi specialistici in cui s’i m p a ra a fare le faccine e a ripetere ossessivamente le stesse diffamazioni. Invece di contestare i fatti che raccontano, tentano di squalificarti come persona. Poi, a missione compiuta, passano alla cassa a ritirare la paghetta. E, se non si abbassano a sufficienza, vengono redarguiti o scaricati dal padrone. Non hanno una faccia e dunque non temono di perderla. Partono avvantaggiati, possono permettersi qualunque cosa. Non hanno alcun obbligo di verità, serietà, coerenza, buonafede, deontologia. Non temono denunce perché il padrone mette ogni anno a bilancio un fondo spese per risarcire i danni che i suoi sparafucile cagionano a tizio e caio dicendo e scrivendo cose che mai scriverebbero o direbbero se non avessero le spalle coperte. Come diceva Ricucci, che al loro confronto pare Lord Brummel, fanno i froci col culo degli altri. Sguazzano nella merda e godono a trascinarvi le persone pulite per dimostrare che tutto è merda. E ci tocca pure chiamarli colleghi perché il nostro Ordine non s’è mai accorto che fanno un altro mestiere. Ci vorrebbe del tempo per spiegare ogni volta ai telespettatori chi sono questi signori, chi li manda, quali nefandezze perpetrano i loro “gior nali”, perché quando si parla di Bertolaso rispondono sulle mie ferie e soprattutto che cos’è davvero accaduto a proposito delle mie ferie: e cioè che ho documentato su voglioscendere.it di aver pagato il conto fino all’ultimo centesimo e di aver conosciuto un sottufficiale dell’Antimafia prima che fosse arrestato e condannato per favoreggiamento, interrompendo ogni rapporto appena emerse ciò che aveva fatto (i due trombettieri invece dirigono e vicedirigono i giornali di due editori – Giampaolo Angelucci e Paolo Berlusconi, già arrestati due volte ciascuno, il secondo pregiudicato – e non fanno una piega). Ma in tv non c’è tempo per spiegare le cose con calma. E, siccome io una reputazione ce l’ho e vi sono affezionato, non posso più accettare che venga infangata ogni giovedì da simili gentiluomini. Gli amici mi consigliano di infischiarmene, di rispondere con una risata o un’alzata di spalle. Nei primi tempi ci riuscivo. Ora non più: non sai la fatica che ho fatto giovedì a restarmene seduto lì fino alla fine. Forse la mia presenza, per il clima creato da questi signori, sta iventando ingombrante e dunque dannosa per Annozero. Che faccio? Mi appendo al collo le ricevute delle ferie e il casellario giudiziale? Esco dallo studio a fumare una sigaretta ogni volta che mi calunniano? O ti viene un’idea migliore?


SI VERGOGNI, E' INCENSURATO


Venerdì 19 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 42
SI VERGOGNI, E' INCENSURATO


Triste dirlo, ma è così: Berlusconi si conferma il politico italiano più sintonizzato col sentire comune. Il suo proverbiale fiuto, misto alle indubitabili doti di pubblicitario, l’ha portato a cogliere immediatamente lo sconquasso che nella pubblica opinione stanno suscitando gli scandali della Corruzione Civile Spa e le mazzette e mazzettine sparse qua e là per l’Italia. Mentre Bersani sta a Sanremo, il Banana annuncia norme più severe anticorruzione e pare voglia addirittura condizionare le candidature in Campania all’immacolatezza della fedina penale. Si tratta – lo sappiamo bene – di spot, fumo negli occhi. Un noto corruttore che approva leggi anticorruzione, se non facesse pura propaganda per nascondere la vergogna della legge anti-intercettazioni prossima ventura, sarebbe un caso di cannibalismo. Ma è significativo che senta l’esigenza di lanciare il segnale. Del resto il Pd gli ha regalato un assist da fuoriclasse, candidando in Campania, regione-simbolo della questione morale anzi immorale, un tre volte imputato. E l’Idv s’è lasciata sfuggire l’occasione di marcare le distanze. Dell’errore di Di Pietro abbiamo già scritto e riscritto. Ma qui il problema è il Pd: possibile che da quel partito non si levi una sola voce di dissenso sulla dissennata candidatura di De Luca? Possibile che siamo tutti d’accordo nel regalare al premier più imputato della storia la battaglia, almeno mediatica, delle “liste pulite”? Il fatto è che questa battaglia, per quanto popolare (altrimenti il Banana non la cavalcherebbe), cade nel più assoluto vuoto mediatico. Spiace citare sempre il Pompiere della Sera, ma non si può farne a meno. Dopo aver linciato Di Pietro per una foto che lo ritraeva a cena, nel 1992, con carabinieri e investigatori incensurati, il quotidiano di via Solferino l’ha molto elogiato per l’appoggio a De Luca, definito “svolta moderata”. Come se la moderazione fosse direttamente proporzionale ai capi d’imputazione. Poi però Di Pietro ha candidato, come capolista dell’Idv in Puglia, un magistrato barese, Lorenzo Nicastro, che aveva addirittura osato indagare sul ministro Fitto (poi rinviato due volte a giudizio da altrettanti gip) e su esponenti del centrosinistra. Anziché felicitarsi perché, dopo tanti ladri, la Puglia rischia di avere un uomo di legge come assessore alla Sanità, il Pompiere ha istruito un processo vagamente staliniano contro il povero pm candidato con l’ex pm. “Davvero lei non prova i m b a ra z z o ? ”, gli ha domandato nell’intervista-terzo grado l’inviato pompieresco, “nemmeno un filo?”, “ci pensi bene”, “a lei che è un giudice sembra morale candidarsi?” (il pezzo si conclude con un decisivo accenno alla “calvizie che lo tormenta inesorabile”). Ecco: se uno candida un imputato o un condannato, è morale. Se uno candida un magistrato, è immorale. Ha detto qualcosa del genere, perdendo un’ottima occasione per tacere, anche l’Anm, che già si era segnalata per un vibrante attacco alla candidatura di De Magistris, peraltro cacciato dalla sua Procura nel silenzio o col plauso della magistratura associata (silente, invece, sulle decine di magistrati, quasi mai dimissionari, che siedono nelle file del Pd, del Pdl e persino dell’Udc). E così, mentre nessuno dice nulla sui 22 pregiudicati che siedono in Parlamento e sugli 80 fra indagati, imputati, condannati in via provvisoria e miracolati dalla prescrizione, si scatena la caccia al magistrato candidato al consiglio regionale. Una cosa orrenda. Il povero Nicastro non credeva ai suoi orecchi, dinanzi a quelle domande: “Io non sono mica un contrabbandiere o uno spacciatore…”, provava a rispondere. Beata ingenuità: se fosse un delinquente, nessuno gli darebbe dell’immorale. Il guaio è che è un uomo di legge, perdipiù incensurato. Dunque si vergogni. Come dice Davigo, gli altri paesi tolgono i diritti civili ai condannati, in Italia vogliono levarli ai magistrati.

IL CANTO DEI GALLI


Giovedì 18 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 41
IL CANTO DEI GALLI


Il professor Ernesto Galli della Loggia s’interroga pensoso sul Pompiere della Sera a proposito de “La corruzione e le sue radici”. L’agile trattatello, diversamente dal solito, non è né inutile né dannoso: serve anzi a comprendere come si è ridotta la classe intellettuale italiota, incapace di vedere, capire, spiegare, proporre, elaborare un’idea originale al di fuori del déjà vu, del luogo comune, dell’eter no conformismo. La tesi di fondo è stimolante e soprattutto inedita, almeno per chi non frequenta i bar sport: è tutto un magna magna. “La verità è che è l’Italia la causa della corruzione italiana”, visto che rubano tutti: chi trucca concorsi, chi froda il fisco, chi si fa la casa abusiva, chi raccomanda amici e parenti nei posti pubblici, chi gonfia le tariffe dei servizi. Ma va? “In molti altri paesi – filosofeggia l’acuto pensatore – comportamenti del genere sono severamente sanzionati anche sul piano penale. Da noi no, sono considerati normali. Perché?”. In realtà i suddetti comportamenti sono reato anche in Italia. Ma, non appena un magistrato si azzarda a scoprirli e sanzionarli, indagando, intercettando, arrestando o condannando qualcuno, c’è sempre qualche gallo della loggia o pollo del balcone che si mette a strillare all’invasione di campo della magistratura, alle toghe rosse, ai processi politici, allo scontro fra giustizia e politica, al giustizialismo, alle manette facili, invocando separazioni delle carriere, immunità, lodi Schifani e Alfani. Quando Mastella e signora furono beccati a lottizzare tutto il lottizzabile in Campania, dalle Asl ai canili, fu tutto un coro di “embè? così fan tutti”. Se, come scrive il sagace politologo, “Mani Pulite non ha segnato una svolta”, “è stato tutto inutile”, “la corruzione italiana appare invincibile”, non è certo colpa dei magistrati. A loro spetta scoprire e punire i reati già commessi. Per impedire o almeno ridurre la possibilità che altri se ne commettano, bisogna rendere più severe le sanzioni e più stringenti i controlli. In questi 18 anni s’è fatto l’opposto. Su circa 200 “riforme della giustizia” approvate dal 1992 a oggi, nemmeno una ha reso più difficile o rischiosa la corruzione e più facile la sua scoperta. Anzi, tutto il contrario. Su quale pianeta, in quale galassia ha vissuto Galli della Loggia per tutto questo tempo? Ha mai scritto un rigo contro le leggi che depenalizzavano l’abuso d’ufficio, le false fatture e il falso in bilancio, allungavano i processi e dimezzavano la prescrizione, sbiancavano i fondi neri all’estero, abolivano i processi alle alte cariche specie quella bassa, condonavano frodi fiscali e abusi edilizi? Si sta forse battendo contro il processo breve anzi morto, il legittimo anzi illegittimo impedimento, l’abolizione delle intercettazioni? Ha mai proposto una sola legge anticorruzione? Ora scopre che “le tangenti continuano a girare vorticosamente anche nel privato”: s’è mai accorto che nel 1999 l’Italia siglò la convenzione del Consiglio d’Europa contro la corruzione (che impone di punire pure le tangenti fra privati), ma si è sempre “dimenticata” di ratificarla? Perché dal suo pulpito, o dalla sua loggia, o dal suo balcone, anziché menarcela con la separazione delle carriere o lo scontro fra giustizia e politica, Galli non ha mai lanciato una campagna per sollecitare quella ratifica? Perché un mese fa i mejo commentatori del Pompiere (a parte Magris e Bragantini) si sono associati alla beatificazione di un corrotto latitante come Bottino Craxi e oggi si meravigliano se si continua a rubare? In coda al trattatello, il geniale pennuto invita tutti a “guardare a fondo dentro di noi e dentro la nostra storia”. Basterebbe guardare a fondo quel che scriveva lui nel 1992-’93 quand’era lucido e quel che ha scritto (ma soprattutto non ha scritto) dopo. Anziché scomodare il gene italico, per spiegare la corruzione basta la rassegna stampa dell’ultimo ventennio: è piena zeppa di intellettuali che, anziché smascherare le imposture del potere, gli prestano le parole per nasconderle meglio.

DE LUCA E LA CONDANNA DIMENTICATA

Mercoledì 17 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 40
DE LUCA E LA CONDANNA DIMENTICATA


Da quando Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno ed ex deputato Ds, è stato candidato dal Pd e dall’Idv a governatore della Campania nonostante i due rinvii a giudizio per associazione per delinquere, concussione, truffa e falso, si scoprono ogni giorno notizie interessanti. Anzitutto che il candidato del centrosinistra è un estimatore di Bertolaso e di Berlusconi. Del premier ammira “l’autenticità: è esattamente come si presenta, rifiuta ogni doppiezza, lo trovo apprezza bile”, mentre disprezza “le classi dirigenti” del centrosinistra, affette da “doppiezza e ipocrisia”, escluso se stesso s’intende. Non sopporta neppure Grillo, De Magistris e padre Alex Zanotelli, che minaccia financo di denunciare. Si definisce “rappresentante della destra europea”, ma poi scavalca anche quella, minacciando di “prendere a calci nei denti e buttare a mare” gli immigrati irregolari. Insomma, è un inflessibile tutore della legalità, ma solo in casa d’altri. In casa sua è decisamente più elastico. Infatti l’intera famiglia De Luca è nei guai con la giustizia: la moglie Rosa Zampetti è sotto processo per falso e abuso per aver presentato carte taroccate per vincere un concorso di sociologa Asl; e il figlio Piero è sotto inchiesta per reati fiscali a proposito di consulenze legate a due società vicine alle Manifatture Cotoniere Meridionali (al centro di uno dei due processi a De Luca padre). Per strappare l’appoggio di Di Pietro, De Luca s’è impegnato con lui a dimettersi “in caso di condanna”. Ovviamente intendeva condanna di primo grado: in caso di sentenza definitiva le dimissioni sarebbero superflue, visto che per legge i sindaci, i presidenti di Provincia e di Regione condannati per reati contro la Pubblica amministrazione devono lasciare obbligatoriamente la poltrona. Resta da capire come possa dimettersi De Luca se condannato in uno dei due processi, visto che di entrambi si proclama “orgoglioso”. Ne ha addirittura pubblicati gli atti (solo quelli che fan comodo a lui, si capisce: le intercettazioni che la Camera non autorizzò i giudici a usare restano top secret) sul suo sito Internet, a mo’ di “sfida della trasparenza e della moralità”. Ma c’è una notizia che De Luca si guarda bene dal diffondere: una condanna in primo grado l’ha già subìta. La prima condanna di un pubblico amministratore per gli scandali della monnezza in Campania è stata emessa proprio nei confronti suoi e dell’ex sindaco Mario De Biase il 25 giugno 2004 dal giudice Emiliana Ascoli: 4 mesi di reclusione e 12 mila euro di ammenda a De Luca e 6 mesi e 16 mila euro a De Biase per aver violato le norme igienico-sanitarie del decreto Ronchi autorizzando lo sversamento di rifiuti (una montagna di 20 mila tonnellate) in un sito di stoccaggio provvisorio e abusivo a Ostaglio, una piazzola a ridosso della Salerno-Reggio Calabria. Discarica sequestrata dai giudici in quanto “abusiva” e “priva di autorizzazione” dopo che per due giorni e due notti, nell’agosto 2001, aveva preso fuoco avvelenando con una nube tossica l’aria respirata da 50 mila abitanti, mettendo in fuga cittadini e bagnanti e paralizzando il traffico dell’esodo estivo sull’autostrada maledetta. Condanna rimossa da tutti, anche da De Luca, che l’altro giorno ha raccontato al Corr iere di essere stato 16 volte indagato e 16 volte assolto. Strano, visti i tre processi in corso a suo carico. Il 26 gennaio 2010, nel processo di appello per la discarica abusiva, il pg Ennio Bonadies ha comunicato che il reato contestato ai due imputati è prescritto. De Biase ha detto di voler rinunciare alla prescrizione per essere assolto nel merito. De Luca pare di no. Se ne saprà di più il 18 giugno, quando parleranno i difensori degli imputati. Resta da capire cosa aspetti De Luca a pubblicare la sentenza sul sito, per completare “la sfida della trasparenza e della moralità”. O almeno di informarne Di Pietro e di dimettersi all’istante. Perché, come ha detto lui stesso, un condannato in primo grado se ne deve andare. O no?

BERTOLAO MERAVIGLIAO


Martedì 16 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 39
BERTOLAO MERAVIGLIAO


Un nuovo genere letterario si afferma sui giornali: il dadaismo informativo. Prendete il Geniale di Feltri. Delle migliaia di carte e intercettazioni dell’inchiesta giudiziaria se ne frega: ha già deciso, ipse Littorio dixit, che “Bertolaso non c’e n t ra ”. Chi lo dice? “Una controinchiesta dei nostri eccellenti cronisti investigativi Chiocci e Malpica chiarisce ogni dubbio. Mette il cuore in pace e restituisce fiducia in un uomo diventato simbolo di efficienza e tempestività del gover no”. Le intercettazioni? “Ingannevoli per d e fi n i z i o n e ”. Ciò che conta sono Chiocci e Malpica, mica bruscolini. Ai giudici non resta che “prender ne atto riconoscendo, si spera, di aver agito con troppa d i s i nvo l t u ra ”. Tutte balle anche gli allegri festini al centro benessere sulla Salaria documentati dalle telefonate: nient’altro che “una onesta lavoratrice specialista nella rivitalizzazione di muscolature ingrippate, da molti richiesta per sistemare schiene dolenti”. O meglio: “Una bonazza fu davvero messa a disposizione di Bertolaso (da un imprenditore), ma questi la respinse con perdita, acquisendo il diritto all’assegnazione di una medaglia al valore, giacché rifiutare una brasiliana nel pieno della giovinezza è prova di eroismo”. Siamo tutti più tranquilli e pazienza se le intercettazioni – “ingannevoli per definizione” – dalle quali si desumerebbe tutt’altra storia. Telefonate che immortalano la memorabile serata del 14 dicembre 2008, mentre il Tevere esondava e San Guido giungeva trafelato e superscortato allo Sporting Village chiuso al pubblico e riservato in esclusiva alla protezione civile della sua muscolatura ingrippata e della sua schiena dolente: un Grande Evento. E’ a questo scopo che Simone Rossetti, il factotum di Anemone, si dava un gran daffare con Regina Profeta, già ballerina del Cacao Meravigliao arboriano, per assicurare la presenza di “due signorine di qualità, non due stelline del cazzo” da agghindare con “bikini di tipo brasiliano un po’ s t re t t o ”. Già, perché ogni rivitalizzazione bertolasa si trasformava in una grande opera da far impallidire due G8, tre campionati di nuoto, tre Expò, mobilitando decine di addetti in assetto antisommossa. Uno accendeva le luci, uno le spegneva, uno chiudeva porte e finestre, uno procacciava le signorine di qualità, uno procurava il bikini, uno attivava la sauna, uno innescava “la talasso”, uno si occupava dell’“a s p i ra z i o n e ”, uno attendeva con ansia di ripulire la scena del relitto da eventuali profilattici dimenticati affondando le mani nei cestini della spazzatura (un esperto di emergenza rifiuti, giunto appositamente dall’Alto commissariato di Napoli), uno aspettava fuori “al parcheggio” intrattenendo la scorta, insomma faceva da palo e comunicava in presa diretta ad Anemone lo stato di avanzamento lavori con apposite walkie-talkie da Emergenza Bikini. Dall’interno giungevano notizie frammentarie, subito commentate e diramate via telefono minuto per minuto: “E’ tutto in atto… da un’o re t t a …l’ho messo subito a suo agio… l’appuntamento sta andando bene… ancora niente... appena esce ti chiamo…”. Ore 23.04 il dado è tratto. San Guido ha finito. Monica rassicura Regina che è rimasto “contento”. L’allegro squadrone addetto alla rivitalizzazione tira un sospiro di sollievo. Anemone esulta: “E’ come se avessimo guadagnato 500 punti”. Bingo! La famosa patente a punti. Ma c’è un ultimo problema: Bertolao Meravigliao si perde nel dedalo dei corridoi e rimane prigioniero per qualche lungo, interminabile minuto. “Come esco, Simone?”. Con scattante efficientismo Rossetti organizza i soccorsi di pronto intervento: “Sì, allora, guarda, c’è direttamente sulla destra o sulla sinistra. Vicino a una delle porte. Vicino a una rotella. Hai visto? Gira quella verso sinistra. Comunque sto venendo giù con la chiave”. Tutto è bene quel che finisce bene. La squadra della Prostituzione civile Spa si allontana in forze a passo di leopardo nella notte, lanciatissima verso nuove mirabolanti emergenze.

DI PIETRO, RIPENSACI


Domenica 14 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 38
DI PIETRO, RIPENSACI


Tutto si può dire di Paolo Mieli, tranne che non misuri le parole. L’altra sera ad A n n o ze ro ha lanciato un vaticinio che somiglia tanto a una maledizione, o a una benedizione: “Come alla vigilia del 1992, sta per saltare il tappo”. Emma Bonino l’ha definito un timore, ma Mieli l’ha gelata: “Non è un timore, è una previsione”. Ieri, sulla Stampa, il direttore Mario Calabresi ha scritto: “Per cancellare il ricordo, ogni prudenza e la paura, per ricostruire la spavalderia, il senso di impunità e di arroganza, sono serviti 18 anni. Una generazione. Un giro completo di giostra che sembra riportarci alla casella di partenza: 17 febbraio 1992”. Diciotto anni fa – mercoledì prossimo –, Mario Chiesa finiva in galera per una mazzettina di 7 milioni pattuita con un impresario di pulizie in cambio di un appalto al Pio Albergo Trivulzio. Anche allora, come oggi l’arresto di Milko Pennisi per una tangentucola di 5 mila euro, il caso Chiesa finì nelle pagine interne dei quotidiani, trattato come un caso di ordinaria corruzione. Come oggi Pennisi dalla Moratti e da Formigoni, Chiesa fu scaricato da Craxi come “mariuolo” e “mela marcia”. Poi Chiesa cominciò a parlare e descrisse il marciume di tutto il cestino. E venne giù tutto. Saltò il tappo. Anche allora c’era la recessione. La spesa pubblica era fuori controllo, così come il debito. La corruzione era una tassa impropria sui cittadini che si mangiava – calcolò l’economista Mario Deaglio – 10 mila miliardi di lire all’anno. E si vedeva a occhio nudo, grazie alla spavalda imprudenza e impudenza dei ladri di Stato che rubavano sotto gli occhi di tutti. Proprio come oggi. Solo che oggi, per la Banca mondiale, la tassa-corruzione è arrivata a mangiarsi 40 miliardi di euro e, per la Corte dei Conti, addirittura 60. Da otto a 12 volte rispetto al 1992. Anche allora una classe politica decrepita, autoreferenziale e screditata tentò di salvarsi con l’impunità: negava tutte le autorizzazioni a procedere ai giudici, varava leggi salva-ladri come il decreto Amato-Conso. Poi la gente scese in piazza e li mandò tutti a casa, almeno per un po’. Anche oggi, a Milano come a Firenze, a Bari come a Palermo, ci sono inchieste che non si limitano a singoli episodi, ma hanno tutte le potenzialità per “s fo n d a re ” fino a far saltare il tappo del sistema. Un sistema ampiamente screditato, indebolito, dilaniato da guerre intestine (la crescente insofferenza dei finiani e della Lega nella maggioranza, per non parlare dello scontro nella cruciale Sicilia tra gli amici di Schifani e Alfano e il clan Dell’Utri-Micciché che ha dato vita al Partito del Sud di Lombardo; e, dall’altra parte, la putrefazione del Pd e l’estinzione della sinistra radicale). Anche i poteri forti della Confindustria e del Vaticano sembrano vacillare, la prima per la crisi e il secondo per la guerra dei dossier. Lo scandalo che ha travolto Bertolaso è, se possibile, ancor più destabilizzante dei processi a Berlusconi: perché Bertolaso, uomo di Gianni Letta molto amato da una porzione del Pd e ben introdotto Oltretevere, è il punto d’intersezione di poteri ancor più antichi e inossidabili di quelli che sostengono l’eterno parvenu Berlusconi. Intanto la mafia dà segni di crescente insofferenza per le “promesse tradite”. Solo chi non vuole o non può vedere quel accade se ne resta asserragliato nella sua piccola trincea, in attesa che “passi ‘a nuttata”, blindandosi con improbabili legittimi impedimenti, lodi e lodini, nuove immunità. Chi ha occhi per vedere, invece, dovrebbe prepararsi a raccogliere i cocci del pentolone che sta per saltare e a fornire un approdo di chi, verosimilmente, resterà presto senza punti di riferimento. Fino a una settimana fa, Di Pietro aveva più di una chance in questo senso. Poi se l’è giocata con l’operazione De Luca. I nostri lettori e migliaia di cittadini della Rete continuano a chiedergli di tornare indietro, finché è in tempo. Ammettere di avere sbagliato è molto meglio che perseverare nell’errore.

PROSTITUZIONE CIVILE


Sabato 13 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 37
PROSTITUZIONE CIVILE


C'è solo una lettura più divertente delle intercettazioni: i titoli dei giornali sulle intercettazioni. Il Pompiere della Sera ha già degradato lo scandalo della Prostituzione civile a seconda notizia per dare il dovuto rilievo al sensazionale “Pensioni, allarme di Berlusconi”. Il Giornale invece apre su Bertolaso: “Intercettazioni tutte da i n t e r p re t a re ”, “solite trappole”, “nuova stagione di fa n go ”. “Su Bertolaso – spiega Feltri – la sensazione è che ci sia poco o niente”: mica come sull’omosessualità di Boffo, per dire. Trattasi di “go s s i p ”, argomenta l’autorevole Meluzzi, portavoce di don Gelmini imputato per molestie su ragazzini. Sempre sul Geniale, Annamaria Bernardini de Pace si raccomanda: “Non chiamatele escort, ma prostitute”, “sono puttane che si offrono ai potenti”: non poteva dirlo all’altro utilizzatore finale? Secondo Belpietro, “non ci fosse stato Bertolaso, i terremotati de L’Aquila sarebbero ancora nelle tende o nei container”. Invece sono in albergo e L’Aquila, dieci mesi dopo, è in macerie come il giorno del terremoto. In compenso alla Maddalena han buttato 330 milioni per alberghi a 5 stelle con vista sui tir. Il Foglio affida un commento a un esperto del ramo: Sergio Soave, l’ex dirigente Pds che patteggiò la pena per le mazzette sul metrò milanese, dunque può autorevolmente analizzare le nuove mazzette: “Come si può passare col rosso suonando il clacson quando si trasporta un ferito all’ospedale, così si debbono poter infrangere regole ordinarie quando si fronteggia una situazione straordinar ia”. Infatti gli appalti riguardano il G8, i Mondiali di Nuoto e i 150 anni dell’Unità d’Italia, tutte situazioni straordinarie, eventi imprevedibili scoperti per caso all’ultimo momento. Immaginiamo il panico quando, in una delle tante notti insonni al centro benessere “Beauty Salaria”, San Guido Vergine e Martire fu avvertito da una fisioterapista di mezza età, tale Francesca, lontana discendente della contessa di Castiglione e di Costantino Nigra, che nel 1861 era nata l’Italia unita. Panico, allarme rosso, stato di emergenza, poi l’Uomo del Fare allertò prontamente il genio pontieri e i cani da valanga, infine chiamò il prode Anemone, che peraltro aspettava da ore fuori dalla porta, all’addiaccio, li mortacci sua. Decisamente più sapido l’altro editoriale del Fog l i o , dal titolo in chiaroscuro ispirato dal cardinal Ruini: “Chiudere la patta”. Sul Riformatorio si produce Polito El Drito in persona: ha compulsato per ore “i brogliacci delle telefonate e i commenti del gip in cerca del reato”. E, tanto per cambiare, non ci ha capito una mazza: manca – scrive con notevole ironia involontaria – “la pistola fumante”. Anzi gli è parso che la celebre Francesca “non potrebbe far escludere la cura di un’ernia del disco”. Poi vaticina che il processo finirà in prescrizione, così “non sapremo mai se Bertolaso ha fatto le terribili cose di cui è accusato” e “se gli appalti della Protezione civile finivano tutti ai personaggi che sghignazzavano alla notizia del sisma de L’Aquila e se la Maddalena è stato un colossale sperpero” perché non avremo “una sentenza definitiva”. Invece di fare un paio di visure camerali o di mandare qualcuno alla Maddalena, lui aspetta la Cassazione. E’ fatto così: se, puta caso, vede un tizio con mascherina, passamontagna e calzamaglia nera che esce da una banca col sacco in spalla, El Drito non grida “al ladro”. Aspetta una dozzina d’anni che la sentenza passi in giudicato. Intanto San Guido sfodera tre alibi di ferro. Il primo glielo fornisce il ministro Matteoli: “Con tutto quel che ha da fare, Bertolaso non ha tempo per farsi corrompere” (i giudici lo terranno nel dovuto conto). Il secondo lo spiega l’interessato al Corr iere: “”Pensate che si possa comprare con 10 mila euro uno come me? E’ umiliante”. In effetti solo uno straccione si venderebbe per così poco: bisogna aggiornare il listino prezzi. Il terzo alibi è gentilmente offerto dal Banana: “Bertolaso non si tocca”. Alla bisogna provvede, eventualmente, Francesca.

BERTOLADRI


Venerdì 12 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 36
BERTOLADRI


Più intercettazioni escono, più si capisce perché le vogliono abolire. Non c’è niente di meglio che ascoltare la nostra classe dirigente, anzi digerente, e i nostri imprenditori, anzi prenditori, per capire da chi siamo governati. Eppure, grazie alle inchieste di E s p re s s o , Repubblica, A n n o ze ro , Repor t e Il Fatto, chi fossero Bertolaso e la sua band si poteva intuirlo. Solo un’informazione serva e salivare poteva scambiare questo bluff semovente, travestito da calciatore della Nazionale, per “un servitore dello Stato nel mirino dei giudici” (Vespa, Pompa a Pompa), “il virgilio delle catastrofi, la straordinaria normalità, jeans&polo, voce piana e forte appeal, l’uomo che piace a tutti tranne che ai magistrati che provano a inzaccherargli la divisa” (Mario Giordano, L i b e ro anzi Occupato), “un efficace or ganizzatore” (Sergio Romano, Pompiere della Sera), “un tecnico capace ed efficiente” (Littorio Feltri, il Geniale), “l’homus berlusconianus (sic), quello del ‘basta con le chiacchiere’, della politica del fare, dei metodi spicci, lo zar di tutte le emergenze” (Peppino Caldarola, Il Riformatorio), “un uomo che fa del bene e quindi viene per seguitato” (il Banana). Ora, grazie alle intercettazioni, anche i non vedenti e i non scriventi sanno chi è e di chi si circonda: un cenacolo di stilnovisti che, molto fisionomisti, si autodefinivano “cricca di banditi”, “immersi in un liquido gelatinoso ai limiti dello scandalo”, “combr iccola”, “gente che ruba tutto il r ubabile”, “bulldozer”, tipi “da carcerare”. Infatti sono stati accontentati. Siccome anche la toponomastica ha un peso, l’appaltatore-elemosiniere di Bertolaso, Diego Anemone, risiede in via Regalìa: più che un indirizzo, una vocazione. Infatti, per rastrellare contanti per gli incontri con San Guido, si rivolgeva a un prete, don Evaldo, per gli amici “don Evà”. Ma le mazzette erano soprattutto in natura, ultima evoluzione di Tangentopoli: fuoriserie e aerei a sbafo, ristrutturazioni e divani gratis, escort e massaggi tutto compreso, assunzioni di figli e domestici. Ecco, la famiglia prima di tutto: Angelo Balducci, uno dei BertoBoys, tenta di piazzare il figlio: “Compie 30 anni e io mi chiedo come padre: che ho fatto per lui? Un cazzo”. Un genitore esemplare. La regola è non pagare mai il conto: quando Anemone in versione marina organizza soggiorni all’Argentario per Carlo Malinconico, segretario generale di Palazzo Chigi e poi presidente degli Editori di giornali, precisa: “Mi raccomando, non è che si distraggono e gli fanno il conto!”. Non sia mai. In altre telefonate sembra di riascoltare i furbetti del quartierino. Fazio: “Ho messo la firma”. Fiorani: “Tonino, sono commosso, io ti ringrazio... ho la pelle d’oca... ti darei un bacio sulla fronte ma non posso farlo... prenderei l’a e re o e verrei da te, se potessi”. Ora un altro dei BertoBoys, Fabio De Santis, meravigliosamente definito dalla b u ro c ra t j i a della Protezione civile “soggetto attuatore”, dice ad Anemone: “Dammi un bacio sulla fronte”. Anemone va un po’ più in giù: “Dove vuoi, pure sul culo se mi dai una buona notizia”. Altri ingredienti ricordano i sistemi di Bancopoli, Calciopoli e Parmalat, col controllo sulle sole variabili impazzite rimaste: non il Pd, figuriamoci, ma i pochi giornalisti e magistrati che ancora fanno il proprio mestiere. Il giornalista spione riferisce quel che sta per scrivere Fabrizio Gatti sull’E s p re s s o , mentre – secondo l’accusa – il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro spiffera notizie agl’indagati (l’avevano già pizzicato nel caso Unipol, infatti coordinava le indagini sui grandi eventi). Completano il quadro le “r ipassate” di Bertolaido a Francesca e a un’a l t ra signorina (“una fisioterapista di mezza età”, garantisce il premier, sempre informatissimo), ma a scopo di “t e ra p i a ” per “riprendermi un pochettino”. E aggiungono un tocco di berlusconianitudine al tutto (il listino del Beauty Salaria include il “trattamento fango”, 65 euro tutto compreso). Ce n’è abbastanza per l’immediata nomina di San Guido a ministro, con legittimo impedimento incorporato: un Ber tolodo.

SUA FELTRITA' E GIULIANO L'APROSTATA


Giovedì 11 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 35
SUA FELTRITA' E GIULIANO L'APROSTATA


Nelle ultime settimane il Partito dell’Amore è riuscito a dichiarare guerra, nell’ordine: ad Haiti, agli Stati Uniti, alle Nazioni Unite (grazie a Disguido Bertolaso) e all’Iran (grazie alle misurate parole del Cavalier Zelig alla Knesset, subito peraltro smentite dinanzi ai palestinesi). In passato, grazie alla maglietta di Calderoli, fummo sull’orlo di una guerra con la Libia, poi rappattumata con inviti e leccatine a Gheddafi, alle sue uniformi da gelataio e alla sua tenda. In precedenza stava per invaderci financo la Finlandia, quando il Banana sostenne di averle strappato l’agenzia alimentare europea “riesumando le mie doti di playboy con la presidente finlandese Tarja Halonen”. Mancavano soltanto le guardie svizzere in assetto di guerra sulle rive del Tevere, e infatti ci siamo arrivati grazie alle sagaci campagne del Giornale di Littorio Feltri contro Dino Boffo e poi contro i suoi presunti nemici interni (il direttore dell’Osservatore Romano, Vian, e il suo presunto mandante cardinal Bertone), su su fino a Sua Santità in persona. “Il Papa fuori dalla grazia di Dio”, titolava ieri il foglio umoristico berlusconiano, mentre quello serio, Il Foglio di Giuliano l’Aprostata, strapazzava il giornale vaticano accusandolo di voler addirittura “silenziare e esporre alla gogna l’informazione laica, libera e amica”. Che sarebbe, tenetevi forte, quella del Fog l i o medesimo: cioè del samizdat che da anni tritura le palle ai redattori e agli eventuali lettori con vespri, salmi, oremus e ite missa est, e pubblicando le omelie integrali con testo a fronte del cardinal Ruini che nemmeno l’Osser vatore oserebbe mai riportare. Tutto questo perché Littorio, l’estate scorsa, pubblicò una patacca – una delle tante – contro Dino Boffo: la falsa informativa di polizia che “a t t e n z i o n ava ” la sua presunta omosessualità, poi attribuita nientepopodimenochè alla “gendar meria va t i c a n a ”. Tesi subito ripresa da Giuliano l’Aprostata, che dopo l’intervento del Papa se la prende col povero Vian, accusandolo di troppo amore per le “chiacchiere di portineria” e di “dirottare la voce ufficiale del Papa”, e tenta di rimangiarsi le accuse lanciate nei giorni scorsi dicendo che era tutto uno scherzo: e chi le ha prese sul serio “manca di senso dell’umor ismo” (forse teme che, la prossima volta che tenterà di baciare l’anello al Pontefice, questi risponda con uno sganassone). Anche L i b e ro abbandona eccezionalmente la prima pagina fissa su Di Pietro e si lancia all’assalto di Santa Romana Chiesa, con titoli del tipo “Telenovela in Vaticano”, “Toppa sul caso Boffo, ma non tiene”, “C’è chi usa il Pontefice solo per farsi scudo”. Insomma il caso Boffo, ormai divenuto caso Ratzinger grazie alla leggiadra levità di questi elefanti in cristalleria, s’è talmente avvitato su se stesso, con tripli salti mortali carpiati, che non ci si capisce più nulla. Si stenta ancora a credere che gli house organ del Banana siano riusciti nella titanica impresa di inimicargli non solo l’Av v e n i re e i vescovi italiani, da sempre molto tolleranti e corrivi con le vergogne berlusconiane, ma addirittura il Sommo Pontefice, che giustamente s’è sempre occupato di problemi un po’ più seri e generali dell’or ticello italiota. Tanto più che, comica finale, sia Littorio sia l’Aprostata sono atei dichiarati e dunque sfugge ai più il motivo del loro morboso aggirarsi in questo svolazzare di tonache, porpore, turiboli e aspersori. E’ quel che si domanda il povero Banana che, con tutti i guai che ha (e che gli procura Bertolaso) e con le elezioni alle porte, deve pure inseguire i cardinali per strada e tenerseli buoni con patetiche letterine alle suorine sul caso Englaro. Nel sacro casino, comunque, almeno una certezza si staglia nitida tra le nebbie miste a incenso: in Vaticano trovano il tempo di leggere Il Foglio, L i b e ro e Il Giornale. Anche le loro eminenze, ogni tanto, necessitano di un po’ di svago.

IMMUNODELINQUENZA ACQUISITA


Mercoledì 10 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 34
IMMUNODELINQUENZA ACQUISITA


Il vice-Alfano, al secolo Luciano Violante, “apprezza i passi in avanti compiuti dal Pdl”. E lo fa subito sapere al Pompiere della Sera. In effetti il Pdl di passi in avanti ne ha fatti parecchi: lodo Alfano incostituzionale, processo breve cioè morto, illegittimo impedimento, prossimamente superlodo Al Nano incostituzionale ma costituzionale per legge e scudo spaziale autoimmunitario per tutta la Casta. Chissà quale di questi passi in avanti apprezza Violante. Lui dice che non gli piace il lodo-bis, ma solo perché è troppo ristretto: copre solo quattro cariche dello Stato, lasciando pericolosamente scoperti i mille parlamentari. Qualche elettore potrebbe domandargli a che titolo parli, visto che non è nemmeno più deputato: non l’ha eletto nessuno. Si sperava che si fosse finalmente ritirato a vita privata, invece Bersani l’ha riesumato dalla pensione nientemeno che come responsabile del Pd per le riforme dello Stato. Qualche elettore potrebbe pure domandare in quale punto del programma elettorale del Pd fosse previsto il ritorno all’immunità: ma, non essendosi neppure candidato, Violante non deve rispettare alcun programma. Del resto non lo rispettano neppure quelli che l’hanno scritto. Anzi, riescono persino a calpestare lo statuto del Pd dopo averlo scritto e approvato (vedi candidatura senza primarie dell’imputato De Luca in Campania). Diciamo che Violante ha voluto fare una bella sorpresina ai suoi ex elettori. Sentite cosa dice al Pompiere: “Se la maggioranza riuscirà ad approvare il legittimo impedimento entro fine febbraio, i 18 mesi previsti per questa ‘legge ponte’ ci porteranno al mese di agosto del 2011. Abbiamo poco tempo a disposizione, dunque”. Per fare un po’ di opposizione? Sì, ciao: “Entro quella data dobbiamo approvare le riforme costituzionali senza le quali non si può affrontare, eventualmente, il tema dell’immunità. La cornice è questa”. Vi piace il presepe? Il tempo stringe, la Casta deve mettersi al riparo dalla Giustizia, speriamo che il Pdl faccia in fretta col legittimo impedimento, così poi ci si dà tutti insieme una bella autorizzazione a delinquere. Ma attenzione ai “paletti”, perché il vice-Alfano del Pd ha pensato anche a quelli. Il più avvincente è questo: “L’immunità non può coprire i reati commessi prima dell’assunzione dell’incar ico”. Dice proprio così: i reati commessi. Cioè dà per scontato che i parlamentari delinquano e dunque abbisognino di uno scudo per poterlo fare liberamente. Purché lo facciano quando sono già dentro il Parlamento. Un po’ di pazienza: prima si facciano eleggere e solo dopo comincino a violare le leggi, magari quelle che essi stessi approvano. Il tutto, si capisce, è finalizzato a rafforzare “la democrazia italiana” con “un Parlamento rinvigorito nelle sue funzioni”. Vuoi mettere il vigore che emana un Parlamento pieno di inquisiti impuniti? Altri due paletti draconiani li fissa un altro giovin virgulto della politica nostrana, Nicola Mancino, su Repubblica: “Che l’immunità non la proponga il governo, ma il Parlamento; e che si preveda una maggioranza qualificata, tra il 60 e il 65%, per respingere le richieste di autorizzazione a procedere dei magistrati”. Già immaginiamo il feroce braccio di ferro fra il governo Berlusconi che vorrebbe l’immunità e la sua maggioranza (quella capeggiata da Gasparri e Cicchitto) che oppone fiera resistenza: no, l’immunità no! E figurarsi quanto sarà difficile trovare una “maggioranza qualificata” dei due terzi per respingere le richieste dei giudici: basta dare un’occhiata alle votazioni degli ultimi 15 anni su arresti e intercettazioni indirette degli eletti: tutti plebisciti con l’80-90% di No, unici contrari i dipietristi e qualche centrosinistro sciolto. A dicembre, contro l’arresto di Cosentino per Camorra, oltre a Pdl e Lega, han votato addirittura 50 del Pd. Anziché arrampicarsi sui paletti, questi signori dovrebbero risparmiarci almeno l’ipocrisia e confessare, com’era scritto in un famoso manifesto della Lega nord del 1996 con la faccia di Dell’Utri: “Votatemi, se no mi arrestano”.

DELITTI A FIN DI BENE


Martedì 9 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 33
DELITTI A FIN DI BENE


Nel “processo breve” a se stesso celebrato da Enzo De Luca al congresso Idv, mancavano la pubblica accusa e un’informazione decente che conoscesse le carte. C’era solo l’imputato, che infatti si è assolto fra gli applausi, raccontando al popolo dipietrista quel che aveva già fatto credere al suo partito, il Pd. E cioè che è stato rinviato a giudizio due volte per truffa allo Stato, associazione a delinquere, concussione e falso per un’opera buona: aver consentito agli ex lavoratori dell’Ideal Standard di continuare a godere della cassintegrazione. Naturalmente è una superballa. Quei lavoratori sono disoccupati. Che cosa è successo davvero? Non si tratta delle accuse di un pm impazzito (Gabriella Nuzzi, cacciata da Salerno dopo aver osato indagare su De Luca e sulla fogna politico-giudiziaria di Catanzaro, vedi caso De Magistris). Si tratta delle ordinanze di rinvio a giudizio firmate da due gup, due giudici terzi. Lo stabilimento altamente produttivo dell’Ideal Standard di Salerno fu chiuso, i dipendenti finirono in mobilità, i suoli industriali che valevano miliardi vennero ceduti a prezzi irrisori a un gruppo di speculatori-immobiliaristi dell’Emilia Romagna (terra cara all’allora ministro dell’Industria, Pier Luigi Bersani). Questi scesero a Salerno, finanziati da banche emiliane e venete e da una finanziaria di San Marino, per realizzare un’operazione irrealizzabile, fittizia – il parco marino Sea Park – e così strappare indebitamente la cassintegrazione e incamerare sontuosi finanziamenti pubblici. Uno dei beneficiari dell’operazione – come han ricostruito i giudici – fu il costruttore Vincenzo Grieco, amico di De Luca e proprietario dei terreni sulla litoranea orientale, destinata al Sea Park da un’apposita variante urbanistica illegittima che trasformò i suoli da agricoli in turistici. I modenesi della Sea Park avrebbero versato a Grieco fondi neri per 29 miliardi di lire e promesso al comune di Salerno di versarne altri 22 di oneri concessori non dovuti, con garanzia fideiussoria. I 29 miliardi sarebbero finiti sui conti della famiglia di Grieco e da questo prelevati in contanti per distribuirli un po’ in giro. Il gruppo Sea Park fu poi costretto a sputare altri 6 miliardi extra-bilancio, con assegni bancari girati per l’incasso a un collaboratore di Grieco, che li parcheggiò su un conto Unicredit per essere poi prelevati in contanti o girati su conti della famiglia Grieco. Nonostante il salasso, la Sea Park non riuscì a ottenere la proprietà dei terreni di Grieco, che, oltre a tutti i soldi incamerati, seguita pure a lucrare sull’aumento della rendita fondiaria dei terreni, gentile omaggio della giunta De Luca. Intanto il gruppo emiliano, spolpato dai salernitani, è ridotto sul lastrico. Gli subentra un consorzio di società immobiliari e del ramo rifiuti capitanato da un faccendiere bresciano pregiudicato, Angelo Tiefenthaler. De Luca appoggia anche lui per un fantomatico programma di “riconversione industriale”, utilissimo per ottenere indebitamente le indennità di mobilità e cassa straordinaria per gli ex lavoratori Ideal Standard. Al posto del parco marino, si dice, nascerà un centro turistico-commerciale e, al posto dell’Ideal Standard, un bell’inceneritore. Invece spunta una centrale termoelettrica, opera della multinazionale svizzera Egle gemella di quella di Sparanise (raccontata dal Fatto a proposito delle liaisons fra finanza rossa emiliana e clan Cosentino). Per queste vicende la pm Nuzzi aveva chiesto al gip l’arresto di De Luca e al Parlamento l’autorizzazione a usare certe sue intercettazioni indirette. Richieste respinte. Il gip distrusse addirittura le bobine gettandole nell’inceneritore, anziché attendere la decisione della Consulta (che di lì a poco ne decretò la piena utilizzabilità); subito dopo il fratello del gip, Luca Sgroia, diventò segretario dei Ds di Eboli e aprì la campagna elettorale per De Luca sindaco di Salerno. E ora chi ha stomaco forte lo elegga pure governatore della Campania.

E PENSARCI PRIMA?


Domenica 7 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 32
E PENSARCI PRIMA?


Inutile nascondersi dietro un dito. L’ovazione che ha salutato una vecchia volpe come Enzo De Luca al congresso dell’Idv rappresenta una sconfitta per Antonio Di Pietro e soprattutto per il suo tentativo di portare un minimo di pulizia nella politica italiana. L’impegno strappato a De Luca di dimettersi, se fosse eletto governatore della Campania e poi condannato (in primo grado, sottintende Di Pietro; in Cassazione, cioè fra vent’anni, sottintende De Luca), non è che una foglia di fico. Soltanto le forme, in questa brutta storia, sono state rispettate: Di Pietro ha rimesso al congresso la decisione se appoggiare o meno il candidato impresentabile del Pd e il congresso ha deciso, addirittura per acclamazione, di sì. L’ex pm del resto era stretto nell’angolo dalle circostanze, che non gli lasciavano alternative: o rinunciare a presentare la lista in Campania, o associarsi al Pd cioè a De Luca. Candidati spendibili non ne ha trovati, anche perché ha cominciato a cercarli troppo tardi, quando ha scoperto che la minestra che passava il convento era ancor più indigesta di quanto mente umana potesse immaginare: un candidato due volte rinviato a giudizio per reati gravissimi (concussione, associazione per delinquere, falso e truffa) al posto di un altro, Bassolino, che di rinvii a giudizio ne ha solo uno. A quel punto non restava che una candidatura di bandiera, quella di De Magistris, che però ha mancato di coraggio, temendo gli attacchi per una “fuga da Bruxelles” pochi mesi dopo l’elezione, e si è reso indisponibile. Ciò che tutti fanno da sempre, fatto da lui, non sarebbe stato perdonato. E altri candidati seri era difficile trovarne all’ultimo momento, anche perché chi corre alla carica di governatore, se perde, non diventa nemmeno consigliere regionale. Fin qui le questioni formali. Quella sostanziale è che ora Di Pietro è costretto a sostenere un signore che, per le regole da lui stesso imposte anzitutto a se stesso, è incandidabile: nel 1996 l’ex pm, sul quale pendevano soltanto alcune richieste di rinvio a giudizio della Procura di Brescia (poi regolarmente respinte da vari gip), restò in disparte e rinunciò a presentare una sua lista nel momento di massima popolarità. Come e perché si è arrivati a questo punto? Anzitutto a causa della spregiudicatezza del Pd che, violando il proprio statuto, ha fatto in modo di evitare le primarie per scegliere l’aspirante governatore e, violando il proprio codice etico, ha mandato avanti un pluri-imputato. Ma anche a causa dell’improvvisazione un po’ r inunciataria con cui Di Pietro ha affrontato le regionali, dichiarando preventivamente che avrebbe appoggiato qualunque candidato targato Pd, purchè glielo comunicassero entro la data delle elezioni. Forse non prevedeva che Bersani & C. avrebbero osato tanto. Errore: da questi signori bisogna sempre attendersi il peggio. Dunque occorreva predisporre per tempo un piano B, interpellando la società civile campana, se ancora ne esiste una, per far emergere una soluzione alternativa. Ma pensando in grande, anche al punto di proporre un candidato indipendente alle altre forze del centrosinistra. Di Pietro non l’ha fatto e si è consegnato al consueto ricatto: o inghiotti il rospo De Luca, o consegni la Campania al Pdl dei Cosentino e dei Cesaro, ben nascosti dietro il faccino al Plasmon del craxiano Caldoro. Naturalmente l’eventuale sconfitta non sarebbe dipesa dal venir meno dell’Idv, ma dalle scelte sciagurate del Pd che in tre anni di scandali non ha costretto alle dimissioni né Bassolino né l’a l t re t t a n t o impresentabile signora Mastella (che, non dimentichiamolo, è presidente del Consiglio regionale in quota centrosinistra) e ora si presenta pure con la faccia di De Luca. Ma la solita disinformatija di regime avrebbe impiegato poco ad addossare al “t ra d i t o re ” Tonino le colpe altrui. Bisognava pensarci prima, appunto. Ora è tardi per le lacrime di coccodrillo. Ma oggi gli italiani che sognano una politica pulita sono un po’ meno di ieri.

TONINO DI PIETRO, DAVANTI E DI DIETRO

Sabato 6 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 31
TONINO DI PIETRO, DAVANTI E DI DIETRO


Il 6 aprile 2008, vigilia delle ultime elezioni, la polizia penitenziaria ascolta il boss della ‘Ndrangheta di Gioia Tauro, Giuseppe Piromalli, ergastolano al 41-bis, chiacchierare del governo prossimo venturo con altri detenuti di Cosa Nostra nell’ora di “socialità” nel carcere di Tolmezzo. Piromalli ha un incubo che gli leva il sonno: che rivinca il centrosinistra e che stavolta non metta alla Giustizia un Mastella, ma Di Pietro. Lo dice al medico mafioso Antonino Cinà e i capimafia Carlo Greco e Paolo Amico (killer del giudice Livatino): “Speriamo che non facciano ministro della Giustizia Di Pietro, quello è incorruttibile, è uno come quel Martelli (il Guardasigilli che nel 1992 inventò il 41-bis, ndr) che ci ha rovinati. E questo Di Pietro è ancora più pesante. Quando faceva il giudice ‘sto cornuto condannava tutti senza pietà, figurati se fa il ministro della Giustizia che cazzo combina. Questo ci fa uscire dal carcere dentro alla bara”. Negli stessi giorni il figlio di Piromalli e altri amici poi arrestati per mafia incontravano Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo. Lui sì, ottimo per la Giustizia. Piromalli aveva ragione. Infatti Di Pietro non è mai stato né mai sarà ministro della Giustizia, perché rischierebbe di farla funzionare davvero: “Figurati che cazzo combina ‘sto cornuto”. In 15 anni di Seconda Repubblica, se la classe politica non ha ancora smantellato del tutto il Codice penale, lo dobbiamo al fattore Di Pietro. Non si contano le volte che, mentre destra e sinistra erano sul punto di accordarsi sulle peggiori leggi pro-mafia e pro-corruzione, l’ex pm s’è messo a urlare e le ha bloccate in extremis. Senza la concorrenza spietata delle sue truppe raccogliticce, il Pd avrebbe fatto molto peggio del peggio che è sotto gli occhi di tutti. Per questo l’establishment lo detesta, per questo il Corriere lo martella ogni giorno con memorabili patacche tipo la foto con Contrada o le rivelazioni a puntate dell’avvocato ex dipietrista Mario Di Domenico, avvocato si fa per dire perché è stato espulso dall’O rd i n e (un Ordine di stomaco talmente forte da non aver ancora espulso definitivamente Previti, quattro anni dopo le condanne definitive per corruzione giudiziaria). Il tutto, si capisce, alla vigilia del congresso dell’Idv. L’ha detto il grande Giorgio Bocca l’altra sera ad A n n o ze ro : la guerra infinita a Di Pietro, iniziata nell’estate ‘92 col “p o ke r d’assi” di Craxi, proseguita con decine di inchieste-farsa a Brescia sui dossier Gorrini e D’Adamo, distillata ancora un anno fa con le bufale intorno al figlio Cristiano che aveva addirittura raccomandato un elettricista di Termoli, e ora giunta alla comica finale con la cena delle beffe, non è dovuta ai suoi difetti, ai suoi limiti, ai suoi errori. Che pure sono evidenti e numerosi. E’ dovuta ai suoi meriti: al suo ruolo di unica opposizione anti-inciucio, di unica diga che ha frenato in questi anni la soluzione finale, l’impunità totale per le classi dirigenti (anzi, digerenti). Ma proprio qui sta l’errore di Di Pietro, anzi la coazione a ripetere sempre lo stesso errore: ha sottovalutato che, in casa sua, una leggerezza diventa un crimine da ergastolo, una pulce diventa un elefante, una pagliuzza diventa una trave. E ha seguitato a imbarcare di tutto, salvo i pregiudicati: il che già lo distingue da tutti gli altri partiti, ma non basta la fedina penale pulita per rendere affidabile e credibile un partito. Lamentarsi col Tg1 di Scodinzolini perché lo rincorre con domande “del cazzo” su una normalissima cena, mentre censura tutte le porcate del padrone, è comprensibile ma inutile. Si sa come vanno le cose e perché. Occorre prenderne atto e farne tesoro una volta per tutte. Il congresso potrebbe essere l’ultima occasione. Quanti personaggini alla Di Domenico pascolano ancora nell’Idv? E quanti poltronòmani, alla prima astinenza o al primo invito ad Arcore, sono pronti a vendicarsi come Gorrini e D’Adamo? Meglio cacciarli subito, prima del prossimo libro o del prossimo dossier.

ILLEGITTIMO CEDIMENTO


Venerdì 5 febbraio 2010 – Anno 2 – n° 30
ILLEGITTIMO CEDIMENTO


Fino a tre anni fa, quando passavano porcate incostituzionali come il legittimo impedimento, le persone perbene guardavano fiduciose al Colle. E spesso il Colle dimostrava che era una fiducia ben riposta, rispedendo le porcate al mittente: accadde col decreto Conso (grazie a Scalfaro), con la Gasparri, la Castelli e la Pecorella (grazie a Ciampi). Da quando c’è Napolitano, non è mai accaduto. Infatti il Giornale scrive che “Napolitano non opporrà ostacoli” neanche stavolta. E’ vero che c’è sempre una prima volta, la speranza è l’ultima a morire, ma insomma. Dunque dove guardare, se anche il Colle è sprofondato? Alla Consulta certo, ma campa cavallo: ha tempi di reazione da bradipo e quando esaminerà il legittimo impedimento sarà già scattata la nuova porcata, il superlodo Al Nano con legge costituzionale. Che, pur essendo incostituzionale, difficilmente la Corte potrà esaminare. Dunque Berlusconi è al sicuro? Mica tanto. Il processo breve è congelato alla Camera perché Fini ha dei dubbi e Napolitano (persino lui) pure. In ogni caso è talmente incostituzionale che stopperebbe i processi al Banana per un annetto, poi la Consulta fulminerebbe anche quella porcata e le udienze ripartirebbero da dove si erano interrotte. Angelino Jolie, noto giureconsulto, dà per scontato che, entro i 18 mesi dalla scadenza del legittimo impedimento, “molto rapidamente” gli verrà agganciato il nuovo lodo per le alte cariche o, in alternativa, la legge costituzionale che ripristina l’autorizzazione a procedere. Forse non gli hanno spiegato che, anche se e quando saranno approvati a maggioranza da Camera e Senato e firmati dal capo dello Stato, lodo e/o immunità saranno lettera morta: prima dovranno essere sottoposti ai cittadini col referendum confermativo. Gl’italiani dovranno rispondere a questa domanda: la legge è uguale per tutti i cittadini o quattro sono più uguali degli altri? Stanno ai sondaggi, vince la prima risposta 80 a 20, anche fra gli elettori del centrodestra. L’unica via di scampo per la banda del buco è approvare una delle leggi costituzionali con i due terzi del Parlamento: per raggiungerli, al Pdl non basta il soccorso della finta opposizione dell’Udc, peraltro scontato. Occorrono i voti del Pd. A questo mira la nuova campagna della stampa berlusconiana, e del Pompiere al seguito, contro Di Pietro, degno corollario della beatificazione di Craxi: demolire la memoria di Mani Pulite, far passare l’idea che i processi ai politici che rubano sono complotti politici, dunque la casta va protetta da nuovi assalti delle toghe politicizzate (quelle che ieri hanno assolto Berruti, per dire). Lo confessa Massimo Franco sul Pompiere dell’Inciucio: “La lievitazione del caso Di Pietro potrebbe regalare qualche sorpresa”. Perciò si continua a montare la panna sul nulla: per azzoppare l’unico ostacolo rimasto sulla via dell’impunità. Ecco dunque dove gli italiani perbene devono rivolgere lo sguardo: a quel che accade dalle parti di Bersani. Nemmeno un voto del Pd dovrà andare al partito dell’impunità. Dipendesse dalla nomenklatura (quella dei D’Alema che rincorrono sempre il “male minore”, dei Violante che delirano di “squilibrio fra giustizia e politica”, dei Letta che giustificano “la difesa dai processi”), l’impunità sarebbe già cosa fatta. L’altroieri, mentre la Camera votava la porcata, Bersani incredibilmente dichiarava: “Siamo pronti al dialogo sulle riforme se il premier rinuncia alle leggi ad personam” (intanto gliene passava un’altra sotto il naso). Ma per fortuna ci sono pure gli elettori, che sono molto meglio degli eletti. Spetta a loro premere con ogni mezzo sul vertice Pd – con manifestazioni, mail, fax, telefonate, lettere ai giornali, interventi ai comizi e ai convegni ogni qual volta s’imbattono in un leader di passaggio – per far sapere che con questa gentaglia non vogliono alcun dialogo, tavolo, compromesso sulla giustizia. Parlando l’unico linguaggio che lorsignori ancora capiscono: la minaccia. Al primo inciucio che fate, non vi votiamo più.