Serial baller

Giovedì 28 aprile 2011 – Anno 3 – n° 100

Serial baller

Capita spesso nei thriller che, giunto a fine carriera, il serial killer faccia di tutto per farsi prendere e dissemini di tracce la propria strada per aiutare l’investigatore a catturarlo. Anche il serial baller che occupa Palazzo Chigi ce la sta mettendo tutta per porre fine ai suoi giorni: in mancanza di qualcuno dall’altra parte in grado di eliminarlo (politicamente, s’intende), ci pensa lui. E si autodistrugge. Solo che gli altri non glielo permettono. E gli salvano la vita (politica, s’intende) anche se lui non vuole. Prendiamo le ultime mosse. Dopo l’emendamento-truffa per far saltare il referendum anti-nucleare e dunque far mancare il quorum agli altri due, i promotori denunciano l’imbroglio, mentre i suoi trombettieri dicono che è tutto regolare e che mai un galantuomo come lui imbroglierebbe gli italiani. A quel punto lui si presenta davanti alle telecamere e ammette: ma certo che era tutto un trucco, il giorno dopo i referendum riprendiamo il piano nucleare come se niente fosse. Cioè, vi sto fregando e vi spiego anche come, tanto nessuno farà nulla: il capo dello Stato firmerà pure questa legge con emendamento-truffa incorporato, la Cassazione casserà il referendum sul nucleare, il Pompiere della Sera esulterà perché si è evitato “lo scontro”, il Pd farà finta di incazzarsi per mezza giornata poi tirerà un sospiro di sollievo perché i referendum avrebbero consacrato Di Pietro, Grillo e Vendola. Ora, onestamente: ma che altro deve fare B. per far capire di essere un truffatore, se non dirlo apertamente in mondovisione? Non mente nemmeno più: appena racconta una balla, fa seguire la smentita incorporata, a prova di coglione. Che altro deve succedere perché il capo dello Stato gli rimandi indietro una legge-truffa che lui stesso pubblicamente ammette essere tale? Che aspetta il Pd a chiedere udienza al Quirinale con le altre opposizioni per difendere quel che resta del nostro diritto di voto da uno scippo dichiarato? Stessa scena sulla Libia. Lui fa di tutto per comunicarci che non abbiamo una politica estera, le alleanze le decide a seconda di come (e soprattutto con chi) si sveglia la mattina, tanto non gliene può fregare di meno. Un giorno bacia uno, un giorno non vuole disturbarlo, un giorno gli dispiace che lo bombardino, un giorno lo bombarda. Così, come gli gira. Se ciò non dovesse ancora bastare – come raccontiamo a pag. 3 – la sera in cui entriamo ufficialmente in guerra contro la Libia se ne va negli studi Rai dove si allestisce la scenografia del programma di Sgarbi, intrattenendo le maestranze e sperando in qualche gnocca di passaggio. Come ai bei tempi del Biscione, quando – scrisse Biagi – “se avesse avuto un filo di tette avrebbe fatto pure l’annunciatrice”. E c’è da capirlo: mica è un politico, è un impresario puttaniere per giunta imputato, ha cose ben più serie e divertenti a cui pensare. Sono 17 anni che cerca di farlo capire, ma gli altri niente: continuano a prenderlo sul serio e a lui tocca farsi due palle così con l’economia, la diplomazia, la scuola, l’università, le pari opportunità. Provate voi a vivere da mane a sera con Cicchitto, Bondi, Gasparri, Bonaiuti, Capezzone, Quagliariello che vi passeggiano sugli zebedei a quattro zampe coi tacchi a spillo. A sottoporvi a estenuanti sedute con Ghedini che spiega ad Alfano la differenza fra prescrizione e circoscrizione. A cercar di capire cosa dice Bossi e cosa pensa Calderoli. A passare ore al telefono con Olindo Sallusti e/o Rosa Santanchè. A ricevere Belpietro a Palazzo Grazioli per allenarlo al talk-show serotino. A chiamare Scilipoti per magnificare le virtù dell’agopuntura, sennò quello si offende. A dar udienza a Giovanardi che rompe i maroni con la droga e la sacra famiglia, mentre vi aspetta una partita del Milan o una partita di mignotte in transito. A inventare sottosegretariati per i “responsabili” capitanati da tal Sardelli, già paroliere di Al Bano con testi del calibro di “Cos’è l’amore”. Ma si può vivere così? Chi può faccia un’opera buona: lo liberi.

Vogliamo il canàro

Mercoledì 27 aprile 2011 – Anno 3 – n° 99

Vogliamo il canàro

Massima solidarietà ai trombettieri di B., costretti alle più spericolate acrobazie per inseguirlo nelle sue piroette ormai quotidiane. Su Ruby: non è prostituta ma nipote di Mubarak; anzi no, è prostituta ma anche nipote di Mubarak. E soprattutto sulla Libia. “Non chiamo Gheddafi per non disturbarlo”; e tutti dietro: zitti, fate piano, non bisogna disturbare Gheddafi. Poi entriamo in guerra contro Gheddafi, ma senza bombardarlo, mica siamo come quel nano di Sarkozy; e tutti dietro: viva la guerra a Gheddafi, ma solo un po’, senza bombardarlo. Poi bombardiamo Gheddafi anche noi, e tutti dietro: evvai, si bombarda Gheddafi anche noi, quando ci vuole ci vuole. Viene persino il dubbio che Lui lo faccia apposta: cioè si diverta a cambiare più posizioni di quelle del Kamasutra per vedere se i suoi pifferai riescono a tenere il ritmo. Impresa titanica, visto che, oltre ad avallare le sue panzane, i poveretti devono inseguire pure quelle dei suoi, fino all’ultimo Scilipoti. Da quando s’è saputo che l’uomo-chiave della maggioranza alla Camera ha la fissa dell’agopuntura, nelle redazioni di Libero, Foglio, Giornale e Panorama s’è scatenata la corsa all’acquisto di manuali sulle medicine alternative, non sia mai che qualcuno si faccia cogliere impreparato. Ma ora ci tocca presentare le nostre più sentite scuse anche a Mimmo Scilipoti da Barcellona Pozzo di Gotto. Si pensava che l’espressione “toccare il fondo” coincidesse con la sua faccia, poi è arrivato Remigio Ceroni da Rapagnano, quello che non si accontenta di riformare un articolo qualunque della Costituzione: lui punta al primo. Sandra Amurri ha raccontato di quando il nostro riformatore, in attesa di cambiare i connotati alla Costituzione, si allenava cambiandoli alla moglie a suon di ceffoni. E lui, sanguinosamente offeso, s’è fatto intervistare e immortalare da Libero nel suo idillio familiare. Lui: “Volgari menzogne, non farei mai del male alla donna che amo”. Lei: “Sono stata in ospedale solo per partorire. Remigio è un uomo pacifico, se mi avesse picchiata non saremmo arrivati a 38 anni di matrimonio”. Il cattolicissimo on. Maurizio Lupi fa subito tanti auguri: non alla moglie menata, ma all’onorevole marito. Purtroppo però al Fatto le notizie, prima di scriverle, si usa verificarle. E così Sandra, che sulle prime aveva preferito sorvolare su certi dettagli sanitari, estrae il referto medico con tanto di denuncia alla polizia, in cui lady Ceroni tutta tumefatta “riferisce di essere stata percossa dal marito ieri alle 22.30 circa presso la propria abitazione”. Venti giorni di prognosi. Chi lo dice, ora, al pio Lupi? Libero torna da Ceroni per la nuova verità di giornata: “Il litigio ci fu, però francamente mi vede estraneo”. Avrà litigato con la moglie a sua insaputa, come uno Scajola qualsiasi? “Io non ero neppure in casa”. L’avrà menata a distanza, con la sola forza del pensiero? “Al pronto soccorso le avranno detto: scriva lite coniugale e così hanno chiuso la partita”. Ma certo: la moglie del sindaco (Ceroni all’epoca era sindaco di Rapagnano) arriva al pronto soccorso tutta lividi, le dicono di dare la colpa al sindaco e lei, sempre a sua insaputa, lo mette nero su bianco. Resta da capire chi l’ha menata. Ceroni tira in ballo il padre, ovviamente defunto: “C’è stato un litigio familiare, lei ha risposto male a mio padre e lui, forse, offeso, ha reagito... Mio padre è pure morto”. In attesa che oggi sforni nuove versioni di giornata (forse la signora Ceroni è la cugina di Mubarak, notoriamente molto manesco) e che Lupi candidi Ceroni a sottosegretario alla Famiglia al posto del ribelle Giovanardi, ben si comprende perché Libero vanti fra i suoi columnist Pomicino e Moggi o il Foglio pubblichi le analisi sulla Libia di Pio Pompa: per sostenere certe tesi bisogna aver già perso la faccia. Essendo venuti a mancare prematuramente il gobbo del Quarticciolo e la saponificatrice di Correggio, si attende l’esordio di un nuovo editorialista di sicuro avvenire: il canàro.

Ciancipietro

Martedì 26 aprile 2011 – Anno 3 – n° 98

Ciancipietro

In evidente imbarazzo per l’arresto di Ciancimino jr, issato agli onori delle cronache dal suo Panorama nel 2007, Maurizio Belpietro scrive: “Non sappiamo da chi abbia imparato a manipolare i documenti. Ma quale che sia il suo maestro, non sarà mai sufficientemente abile da competere con Travaglio”. Troppo buono. Ma, come si suol dire: prego, dopo di lei. Ciancimino è stato arrestato per aver taroccato un documento contro De Gennaro. Accusa ancora tutta da provare (per ora si sa solo che il documento è stato falsificato, ma non da chi né perché), anche se i “garantisti” Pdl l’hanno già condannato in via definitiva. In compenso è ormai fatto notorio che da 17 anni gli house organ di B., diretti o vicediretti da Belpietro, han preso per oro colato una serie innumerevole di panzane. Nel ‘95 il Giornale rilancia le “notizie agghiaccianti” che B. dice di aver appreso sul pool Mani Pulite, denunciato a Brescia per “attentato a organo costituzionale” (art. 289 Codice penale, pena massima 10 anni di carcere). Naturalmente – vedi pagina 2 – il pool viene assolto, mentre i supertestimoni delle notizie agghiaccianti, i marescialli Strazzeri e Corticchia, vengono arrestati e condannati per calunnia. Sempre nel ‘95 il Giornale vicediretto da Belpietro avvia una lunga campagna per dimostrare che Pacini Battaglia ha corrotto Di Pietro con “una valigetta con 5 miliardi”. Poi, nel novembre ‘97, i lettori del Giornale trovano in prima pagina un articolo di Feltri: “Caro Di Pietro, ti stimavo e non ho cambiato idea”. E due pagine di ritrattazione completa: “Di Pietro è immacolato”, “i famigerati miliardi di Pacini” sono una “bufala”, una “ciofeca”, una “smarronata”, “dissolto il grande mistero: non c’è il tesoro di Di Pietro”. Cioè: Il Giornale vicediretto da Belpietro “dissolve” un mistero che ha inventato lui, per salvarsi dalle denunce dall’ex pm (Paolo Berlusconi deve pure sborsare 700 milioni di lire). Anche Giuliano Ferrara porta la sua acqua al mulino della calunnia: nel ’97, direttore di Panorama , allega il pamphlet di Giancarlo Lehner “Attentato al governo Berlusconi. Art. 289 Codice penale” che rilancia le “notizie agghiaccianti” e che viene puntualmente condannato per aver descritto fatti mai accaduti. Ora Ferrara ripesca l’articolo 289 per mandare in galera i pm di Palermo. Ed è perfino costretto a difendere De Gennaro, che il Foglio insulta da 15 anni per la penna di Lino Jannuzzi, lo stesso che nel ’91 scriveva: “Falcone e De Gennaro sono i favoriti per la Dna e la Dia... È una coppia la cui strategia... ha approdato al più completo fallimento: sono Falcone e De Gennaro i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Quando si arrivasse a queste nomine, dovremo guardarci da due ‘Cosa Nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. Del resto gl’investigatori prediletti da Ferrara sono altri: per esempio Squillante, che lui definisce “uomo probo” anche quando finisce dentro per un conto in Svizzera con 10 miliardi, comunicante con quello di Previti. Quando poi Igor Marini infanga Prodi & C. per Telekom Serbia, Il Giornale di Belpietro rilancia pure le sue balle, almeno finché Marini non viene arrestato per calunnia. Ora, a corto di fornitori di bufale, deve inventarsele in proprio: tipo l’attentato subìto per mano della “sinistra dell’odio” o il progetto di un falso agguato a Fini per accusare B. Sapete come sono finite? La Procura ha appurato che l’attentato a Belpietro non è mai avvenuto e quello a Fini è una patacca rifilata al direttore di Libero da un imprenditore pugliese che voleva dimostrare come sia facile ammollare patacche a certi giornali. Infatti mica era andato a casaccio: si era rivolto proprio a Belpietro (di cui il pm Spataro ha chiesto la condanna per procurato allarme). Quel dilettante di Ciancimino, con un solo documento falso, non si monti la testa: deve farne di strada, per diventare un Belpietro.

Ciance & Ciancimino

Domenica 24 aprile 2011 – Anno 3 – n° 97

Ciance & Ciancimino

Proseguono, nel quadro della progressiva abrogazione della logica aristotelica, i delirii sul caso Ciancimino. Il Giornale e Libero (due testate, due ossimori) spacciano la seguente leggenda: Ciancimino si sveglia un mattino di tre anni fa e decide di migliorare la sua qualità della vita fabbricando calunnie su premier, ministri e alti funzionari della Prima e della Seconda Repubblica accusandoli di aver trattato con la mafia e corre a consegnarle alla Procura di Palermo. I bocconi più prelibati sono ovviamente B. e Dell'Utri che lui, sempre per vivere meglio, getta in pasto alle toghe rosse (com’è noto, infatti, chi accusa B. e Dell’Utri fa un carrierone). I pm, per tre anni, prendono tutto per oro colato, fiancheggiati da stampa e tv (notoriamente in mano alle sinistre). Poi arriva la Scientifica, scopre che uno dei documenti è taroccato, dunque lo sono anche tutti gli altri, ergo non c'è stata alcuna trattativa Stato-mafia, quindi B. e Dell'Utri con la mafia non c’entrano. Fine della storia, applausi di Cicchitto & Gasparri. Per chi eventualmente fosse interessato ai fatti, le cose sono andate in tutt’altro modo. Nel 2005 Ciancimino jr. compare per la prima volta davanti alla Procura di Palermo (allora retta da Grasso e Pignatone), che lo indaga per aver riciclato il tesoro di don Vito, gli sequestra 64 milioni, gli perquisisce le case e lo intercetta per due anni (2003-2005). In alcune telefonate Massimo parla di soldi da versare ad alcuni parlamentari siciliani (Vizzini, Cuffaro, Cintola, Romano), ma i nastri finiscono in un cassetto, nè trascritti né inviati al Parlamento per l'autorizzazione. Sempre al telefono, con la sorella Luciana, Ciancimino parla di un assegno di 35 milioni di lire che Berlusconi staccò nei primi anni 80 a don Vito, il quale lo conservava gelosamente in una “vecchia carpetta”. Ma anche sull’assegno la vecchia Procura pare poco o nulla interessata: nessun’indagine, solo una domandina su 150 pagine di verbali. Stragi? Trattative? Nessuna domanda. In casa Ciancimino, i carabinieri dimenticano di aprire la cassaforte, visibile a occhio nudo: peccato, perché conteneva sia il papello sia l’assegno di B. I militari trovano però, fra le carte di don Vito custodite dal figlio, “parte di foglio A4 manoscritto contenente richieste all’on. Berlusconi per mettere a disposizione una delle sue reti televisive”. Ma nemmanco su quello Ciancimino viene interrogato, anzi il documento scompare dagli atti del suo processo. Nel dicembre 2007 la svolta. Ciancimino racconta a Nuzzi di Panorama (direttore Belpietro) il suo ruolo nella trattativa fra il Ros e il padre e lamenta che nessuno l'abbia mai sentito sul punto. La nuova Procura (retta ora da Messineo) lo convoca subito: lui conferma e aggiunge molto altro. Ma solo quando consegna il “papello” e altre carte autografe del padre si ha la prova che la sa lunga. Poi arrivano i Martelli, Ferraro, Violante, Conso a confermare con i loro tardivi ricordi ciascun tassello di un mosaico iniziato dieci anni prima da Brusca e dagli stessi Mori e De Donno. Intanto una fonte avverte i pm in casa Ciancimino i carabinieri trovarono molto più di quanto risulti. Ed ecco saltar fuori dal fondo di uno scatolone l’appunto su B: l’autore (Provenzano o don Vito per suo conto) promette appoggio elettorale a B. in cambio di una tv e minaccia, in caso contrario, un “triste evento”. I pm richiamano Massimo e gli sventolano il foglio sotto il naso. Lui sbianca, piange, trema, mente, poi è costretto a vuotare il sacco: una corrispondenza fra Provenzano e B. fra il 1992 e il ’94 e una serie di carte del padre su B e Dell’Utri, che non fanno che confermare quanto già si sapeva sui rapporti mafiosi dei due. Carte ritenute autentiche dalla Scientifica che poi ha smascherato il falso su De Gennaro. Dunque Ciancimino fu costretto dalle sue intercettazioni e dalle sue carte a parlare di B. e di Dell’Utri, mentre all’inizio non ne voleva proprio sapere. Infatti, per confidarsi, scelse proprio il settimanale della famiglia B. Furbo, eh?

L’eroe di Belpietro

Sabato 23 aprile 2011 – Anno 3 – n°96

L’eroe di Belpietro

Come volevasi dimostrare, dopo l'arresto di Ciancimino i trombettieri di B. si sono messi all'opera per screditare non tanto lui, quanto i pm che lo interrogano da tre anni e i giornalisti che l'hanno intervistato. Anzi, uno solo: Santoro. Poco importa se i pm sono gli stessi che l'han fatto arrestare alla prima prova di falso e se l'hanno intervistato giornalisti di tutto il mondo (infatti Vespa no). Il Corriere interpella Dell'Utri come un osservatore di cose di mafia, omettendo la condanna per mafia in primo e secondo grado. Il Foglio delira: “Della presunta trattativa tra mafia e Stato non c'è nessuna prova” (invece la trattativa è straprovata da testimonianze e documenti emersi dopo le, anzi grazie alle rivelazioni di Ciancimino; e il documento falso non sposta una virgola). Il segugio Chiocci, sul Giornale, vaneggia di un Ciancimino “smentito e sputtanato” dalle recenti notizie sulle trattative sotto i governi Amato e Ciampi (in realtà il primo a parlarne fu proprio lui, dunque è stato confermato non smentito); e di “calunnie copia & incolla su Berlusconi, chissà perchè non meritevoli di arresto” (in realtà i documenti di don Vito su B. e Dell'Utri li ha già autenticati la Scientifica che ha smascherato il falso su De Gennaro). Il primo trombone della banda, Giuliano Ferrara, seguito a ruota dalla trombetta Chiocci, dice che i pm di Palermo credevano ciecamente a Ciancimino, anzi andavano al suo rimorchio per usarlo contro B. e uno di essi, in un libro, lo esaltava come “icona dell'Antimafia”. Balla spaziale: Ingroia, nel libro “Nel labirinto degli dei”, riconosce che Ciancimino jr. “ha sfidato la legge dell'omertà” svelando i retroscena della trattativa Stato-mafia, ma poi ne critica “la smania di apparire”, di “parlare troppo, specialmente coi giornalisti, specie dei suoi interrogatori per i quali è tenuto a rispettare la segretezza... Un imputato-testimone che scrive libri imbastiti con il contenuto delle sue dichiarazioni... uomo dei media e per i media. Per una metamorfosi mediatica, oggi il figlio di Ciancimino è arrivato a diventare quasi un'icona dell'antimafia”. Ed esterna “tanti dubbi sull'attendibilità del giovane Ciancimino” su alcuni fronti, mentre su altri riconosce “l'importanza del contributo di conoscenza da lui apportato”. Nella prefazione al libro di Maurizio Torrealta, “Il quarto livello” (Bur), che parte proprio dalla cartolina manoscritta che ora Ciancimino jr. è accusato di aver taroccato, Ingroia aggiunge: “Mantengo le mie perplessità sull'interpretazione di Ciancimino del Quarto livello... del tutto fuorviante e non aderente alla realtà”. Il meglio lo dà Belpietro, su Libero: “Ciancimino era l'oracolo di Santoro, ma è solo un ballista”, “L'eroe di Santoro e pm arrestato per calunnia”. Ricorda che “Ciancimino si era rivolto a me nel 2007”, ma lui l'aveva subito capito che era un ballista. E giù botte a “Santoro, La Licata, Ruotolo, Sandra Amurri e tanti altri illustri colleghi della stampa progressista” che invece “si sono prestati a intervistarlo in pubblico”. Già, le interviste: la prima fu il 19 dicembre 2007. Ciancimino jr. svelò il suo ruolo di postino del padre nelle trattative Stato-mafia e gli incontri di don Vito con Mori e De Donno, Riina e Provenzano. E alla domanda “È mai stato interrogato su queste trattative e sulle stragi?”, rispose: “No, mai. Eppure il cap. De Donno mi consegnò dei rotoloni con la piantina di Palermo ed elenchi di utenze telefoniche presumibilmente in uso a Riina. Mio padre avrebbe dovuto segnare la zona e indicare i numeri telefonici. Una settimana dopo riconsegnai i rotoloni con indicato il quartiere di viale Regione Siciliana: 'Lì dovete cercare Riina'”. I pm di Palermo lessero l'intervista e convocarono Ciancimino jr. per mettere tutto a verbale. Così iniziò il caso Ciancimino. Sapete qual era il giornale che pubblicò l'intervista? Panorama. E chi lo dirigeva? Belpietro. Per dirla con Belpietro, “l'eroe di Belpietro arrestato per calunnia”.

Ciancimino contro Ciancimino

Venerdì 22 aprile 2011 – Anno 3 – n° 95

Ciancimino contro Ciancimino

Prima di venire sommersi dalla prevedibile ondata di commenti sull’arresto di Massimo Ciancimino, quei commenti all’italiana fatti apposta per intorbidare le acque, mettiamo in fila i fatti. Nel luglio scorso il figlio di don Vito consegna alla Procura di Palermo la fotocopia di una cartolina: a sinistra, una lista di nomi di dirigenti della polizia e dei servizi, più un certo “Gross”, collegato da una freccia a un nome scritto a destra da un’altra mano: “De Gennaro”. Ciancimino jr spiega che fu lui a scrivere i nomi a sinistra, sotto dettatura del padre, in un promemoria sugli uomini dello Stato definiti dal padre “il quarto livello”; fu invece il padre ad aggiungere di suo pugno “De Gennaro”. Che, a suo dire, è Gianni, l’ex capo della polizia ora capo dei Servizi segreti. La procura, come per ogni pezzo di carta consegnato da Ciancimino, chiede alla polizia scientifica di accertare l’autenticità del documento. La Scientifica certifica che i nomi a sinistra li ha scritti Massimo e “De Gennaro” l’ha scritto Vito. Del resto, tutti e 150 i documenti consegnati da figlio dell’ex sindaco di Palermo, sono finora risultati autentici e per questo sono entrati in vari processi (per esempio quello a carico del generale Mori per la mancata cattura di Provenzano) e indagini (a partire da quella sulle trattative del 1992-'94) come indizi o prove. Perché, non essendo artefatti, sono una buona base di partenza per appurare se il loro contenuto sia anche la verità (e questo lo stabiliranno i giudici). Ma ecco, qualche settimana fa, il colpo di scena. Ciancimino consegna alla Procura di Palermo una nuova serie di documenti. Fra questi c’è un appunto originale di don Vito su un quasi omonimo di De Gennaro: l’ex magistrato Giuseppe Di Gennaro, poi consulente del ministero della Giustizia per la riforma delle carceri e alto funzionario Onu, erroneamente citato come “De Gennaro”. La Scientifica scopre che la parola “De Gennaro” è identica a quella che compare nella fotocopia della cartolina: qualcuno l’ha appiccicata col Photoshop sulla cartolina fotocopiata, per collegare il capo dei Servizi agli uomini del presunto “quarto livello”. Un falso, dunque, il primo accertato nelle carte di Massimo. Che ora è accusato di esserne l’autore. Se lo sia, e perché, dovrà spiegarlo oggi ai pm di Palermo. Che hanno sempre detto di volerlo valutare parola per parola, carta per carta e ieri, arrestando il teste chiave delle loro indagini proprio alla vigilia della sua deposizione al processo Mori, hanno dimostrato lo stesso rigore di Falcone che arrestò il pentito Pellegriti per aver calunniato Lima; dei giudici di Brescia che arrestarono due marescialli per aver calunniato il pool di Milano; dei giudici di Palermo che arrestarono Di Maggio e altri pentiti tornati a delinquere; dei giudici di Torino che arrestarono Igor Marini per aver calunniato Prodi & C. Ora le conseguenze politico-mediatiche dell’arresto di Ciancimino rischiano di ingigantire anche quelle giudiziarie. In teoria, un solo documento falso non può cancellare gli altri autentici; né le intercettazioni in cui Ciancimino parla di soldi dati a politici (Vizzini, Cuffaro, il neoministro Romano); né le rivelazioni rese a verbale e già confermate da sentenze di primo e secondo grado, ma soprattutto da quei politici che hanno ritrovato la memoria vent’anni dopo quando li ha tirati in ballo lui. Oggi Ciancimino, dopo due anni di stop and go, dovrà finalmente spiegare chi è davvero. Uno stupido pasticcione che rovina la propria credibilità falsificando un documento su 150, mettendosi contro il potente De Gennaro e portando lui stesso ai pm le prove della sua calunniosa truffa? Un falso testimone infilato dalla mafia o da altri loschi ambienti per depistare le indagini su stragi e trattative? La vittima consapevole o inconsapevole di qualcuno che gli ha fornito carte false? Un uomo ricattato e costretto a “suicidarsi” per screditare tutto quel che di vero aveva raccontato finora? Solo Ciancimino, ormai, può svelare l’enigma Ciancimino.

Abrogare Aristotele

Giovedì 21 aprile 2011 – Anno 3 – n° 94

Abrogare Aristotele

Anziché affannarsi a riscrivere questo o quell’articolo della Costituzione, B. e i suoi trombettieri farebbero prima ad abrogare per decreto il principio di non contraddizione. Ciò che li frega è la Logica aristotelica, per cui se A=B e B=C, C=A. Per quanti sforzi facciano, non riescono proprio a starci dentro. Ieri il Giornale di Olindo Sallusti esibiva in prima pagina un sapido commento di Mario Giordano, dal titolo: “Montezemolo ha già scelto: sta con Travaglio”. La tesi è tanto semplice quanto demenziale: “Il Fatto nasconde in una breve il processo per abuso edilizio ad Anacapri a carico del presidente Ferrari, e questi in cambio ‘presenta il suo progetto politico sul Fatto che dimentica il giustizialismo e si traveste da mensile patinato’ trattandolo con ‘affettuosità e ma gnanimità’”. Il pover’uomo forse ignora che la notizia del processo per i presunti abusi ad Anacapri l’ha data proprio il Fatto, in prima pagina, grazie a uno scoop del nostro Vincenzo Iurillo. Il Giornale intanto non sapeva, o se sapeva dormiva: meglio tenersi buono Montezemolo, vedi mai che entrasse in politica rubando voti al padrone. Ora che pare abbia deciso, la notizia vecchia di mesi finisce in prima pagina sul Giornale, così Montezemolo impara a dar fastidio a B. Segue lezioncina di buon giornalismo a noi che l’abbiamo scovata e svelata per primi. Naturalmente Montezemolo non ha mai “scelto il Fatto” per “presentare il suo progetto politico”. Semplicemente chi scrive, qualche giorno fa a Exit, ha rammentato che il conflitto d’interessi non ce l’ha solo B. Ce l’avrebbe anche Montezemolo, con tutti gli incarichi che ricopre, se entrasse in politica. L’indomani il manager ci ha telefonato in redazione per precisare che “ove mai entrassi in politica, metterei in un blind trust le mie azioni Ntv (la società fondata con Della Valle per treni superveloci, ndr) o le venderei a un altro socio”. L’avrebbe detto a chiunque gli avesse contestato il potenziale conflitto. Se l’ha detto a noi è perché noi gliel’abbiamo contestato. Se non l’ha detto al Giornale è perché al Giornale, comprensibilmente, la parola “conflitto d’interessi” è come “bunga-bunga”: proibita. Se qualche redattore se la lascia scappare, il correttore automatico la cancella. Ma questi ragionamenti semplici, elementari, comprensibili anche da un bambino un po’ tonto, da quelle parti non hanno cittadinanza. Del resto, sono giorni che gli house organ della Banda Larga martellano Fini perché ha incontrato i vertici dell’Anm, autorizzando così il sospetto di “collusione con la magistratura”: finirà che il presidente della Camera dovrà incontrare Totò Riina per dissipare l’infame sospetto e far contento il premier. Gli stessi trombettieri massacrano la Bindi perché ha dato del “piduista” a Cicchitto, tessera P2 n. 2232, fino a farle ammettere di aver un po’ “esagerato”. Intanto Pierluigi Battista, che non ha scritto una riga contro B. che dà dei “brigatisti” ai magistrati milanesi, seguita a massacrare Asor Rosa perché ha invocato la forza pubblica per rimuovere B. e, non contento degli amorevoli moniti di Pigi, ha ribadito il concetto del “golpe democratico”. Il che – per Cerchiobattista – è indice di “sfiducia nelle virtù del voto” e dell’“incapacità della sinistra di comprendere le ragioni delle sue molteplici e reiterate sconfitte” attribuite “alla cattiveria del Nemico o alla decadenza antropologica di un elettorato irretito dal grande ciarlatano”. Forse l’acuto tuttologo del Pompiere dimentica che B. siede abusivamente, illegalmente in Parlamento e dunque al governo da 17 anni, essendo sempre stato ineleggibile in quanto concessionario pubblico. E ciò in virtù di una legge fatta non da Asor Rosa, ma da Mario Scelba (Dc): la n. 361 del 1957. Le elezioni sono una splendida cosa, ma B. non avrebbe mai potuto parteciparvi. Dunque non avrebbe mai vinto, salvo rinunciare alle concessioni tv. Ergo non avrebbe mai vinto, punto. È abbastanza chiaro o serve un disegnino?

Il gioco delle tre truffe

Mercoledì 20 aprile 2011 – Anno 3 – n° 93

Il gioco delle tre truffe

Fino a un mese fa, chiunque azzardasse qualche pallida critica, qualche tenue perplessità, qualche timida riserva sul ritorno al nucleare veniva bollato da un ampio fronte di giornali, politici ed “esperti” come un vecchio rottame nemico della Modernità. E non solo dagli house organ del Cainano, ma anche da quelli della banda larga dei costruttori che già pregustavano la pappatoia degli appalti per le nuove centrali atomiche. Ancora all’indomani del disastro in Giappone, il Messaggero (gruppo Caltagirone) ospitava un profetico commento di Oscar Giannino, quello che pare una comparsa del Marchese del Grillo con il cocchio dorato che l’attende fuori dagli studi televisivi: “Tentare di dimostrare che il nucleare non possiamo permettercelo è dimostrazione di crassa ignoranza tecnologica”. Da oggi c’è da giurare che nessuno di quelli che vengono eufemisticamente chiamati “giornalisti e intellettuali di destra” (in realtà dipendenti a libro paga di B.) oserà più dire una mezza parola pro nucleare. Anzi, diventeranno tutti antinuclearisti convinti e accuseranno di “crassa ignoranza tecnologica” chi fosse a favore. Così come per l’Iraq e l’Afghanistan erano guerrafondai e oggi per la Libia sono pacifisti. Così come sulla morale sessuale erano puritani e bigotti (addirittura “atei devoti”), per poi trasformarsi in sfrenati libertini quando si è dimostrato che il premier è un puttaniere e “utilizza” minorenni. In attesa di vedere Giannino col berretto del Sole che ride, Ferrara con le mutande verdi, Belpietro appeso all’altare della patria avvolto nella bandiera di Greenpeace, Olindo Sallusti sulla goletta verde di Legambiente con Rosa Santanchè nella scialuppa di salvataggio, la retromarcia su Fukushima segnala le catastrofiche condizioni in cui versa il premier. Lui, ovviamente, del nucleare se ne infischia: non distingue una centrale da un palo della lap dance. Ciò che lo angoscia sono i referendum: non quelli sul nucleare e l’acqua pubblica (è talmente liberaleliberistaliberalizzatore che non ha mai privatizzato nemmeno un canile), ma quello sul legittimo impedimento. Quel diavolo di Di Pietro gli ha infilato proprio lì un cuneo mica male: fra due mesi, dopo vent’anni di leggi ad personam, i cittadini potranno finalmente decidere se la legge è uguale anche per B. o no. Un referendum sull’imputato B. che, al contrario di quel che cianciano i soliti idioti, lo colpisce nel suo unico vero tallone d’Achille: i processi. L’unico attacco che teme davvero, perché gli fa perdere consensi e lo manda fuori di testa, è quello giudiziario: infatti non dorme la notte all’idea che il 12-13 giugno si raggiunga il quorum e il legittimo impedimento venga raso al suolo. Infatti ha relegato i referendum in periodo vacanziero, a costo di sperperare 350 milioni con la rinuncia all’election day, nella speranza che gl’italiani andassero al mare. Ma l’emozione per la catastrofe di Fukushima è tale da garantire che il quorum si raggiungerà per tutti e tre i quesiti, compreso quello che lo riguarda ad personam. Ed ecco, ieri, la mossa da giocatore delle tre carte: una leggina che sospende il piano nucleare per un anno, così il referendum sull’atomo salta, gli altri due mancano il quorum, e poi da settembre, fra il lusco e il brusco, quando nessuno ci penserà più, si riesumano le centrali. Una truffa al cubo. Ricapitolando. Tre anni fa B. truffa una prima volta i cittadini che nell’87 avevano detto No al nucleare, annunciando una raffica di nuove centrali. Di Pietro raccoglie le firme di quasi un milione di cittadini per cancellare quel piano criminale e lui B. li truffa una seconda volta, assieme ai milioni di italiani che avrebbero votato Sì a cancellare per sempre dall’Italia la fonte energetica più vecchia, inquinante e pericolosa del mondo. Fra qualche mese li trufferà per la terza volta, facendo rientrare dalla finestra il nucleare appena espulso dalla porta. Per salvare una legge ad personam, la numero 40, ne fa un’altra, la numero 41. È troppo sperare, oltre ai soliti moniti, che non venga firmata?


Mullah Omaglie

Martedì 19 aprile 2011 – Anno 3 – n° 92

Mullah Omaglie

Dipendesse da noi, i reati di opinione sarebbero aboliti da un pezzo. Ma, siccome esistono, non si vede proprio perché debba essere incriminato e deprecato e scandidato quel tal Lassini, autore dei memorabili manifesti “Via le Br dalle Procure”, e il presidente del Consiglio che da vent'anni ripete le stesse porcherie, invece no. Naturalmente Sallusti scrive che “Lassini è comunque meglio di Marco Travaglio che rivendicò il diritto all’odio quando Tartaglia scagliò una statuetta in faccia a B. Rivendichiamo per Lassini la libertà di opinione concessa a Travaglio”. Ma certo, figuriamoci, rivendichiamo. Purché sia chiaro che provare odio, amore e tutti i sentimenti che ci pare nei confronti di chi ci pare è un diritto, mentre il vilipendio della magistratura è un reato (art. 290 C.p.: “Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le assemblee legislative... il Governo, o la Corte costituzionale, o l’ordine giudiziario è punito con la multa da euro 1.000 a 5.000... Articolo così modificato dalla L. 24 febbraio 2006, n. 85”, cioè da una legge voluta e votata da Pdl e Lega). Il fatto è che i liberali della mutua che infestano l’Italia mantengono i reati di opinione, ma vorrebbero applicarli solo ai nemici e non agli amici. Qualche anno fa questi liberali a targhe alterne, da Ferrara a Pigi Battista, ci triturarono le palle con la difesa del vignettista danese che non aveva trovato di meglio che dileggiare Maometto, attirandosi la fatwa. Poi non mossero un dito quando Vauro, per una vignetta sulle ruberie del dopo-terremoto, fu sospeso da Annozero. E ora naturalmente tacciono sull’ultima trovata di Maria Giovanna Maglie, il cui tasso di liberalismo è inversamente proporzionale alle note spese. La serena ed equilibrata opinionista di Libero (ah ah) ha sporto denuncia “in sede penale e civile” per far condannare Massimo Fini e far sequestrare il suo ultimo libro, Il Mullah Omar (Marsilio). Immaginate un liberale anglosassone che denuncia un libro: prima di chiamare l’ambulanza, gli darebbero del nazista, del fascista, dell’inquisitore, del talebano. E il bello della Maglie è proprio questo: per togliere di mezzo un libro accusato di apologia dei talebani, usa metodi tipicamente talebani. Spiegando su Libero (ah ah) l’iniziativa censoria, si imbroda come un’erede della “lezione profetica di Oriana Fallaci” che difende tutta sola l’Occidente “con sprezzo delle conseguenze” (quali?). Poi sostiene che Fini non può passarla liscia (“risponderà di quel che ha scritto nei tribunali”). Il suo libro è “indegno, scandaloso, inaccettabile” perché “è un insulto all’Occidente” (c’è un reato di leso Occidente e non ce n’eravamo accorti). Eppoi è la biografia dell’“addestratore degli autori delle stragi dell’11 settembre 2001” (nessuno dei quali era afghano), “sanguinario terrorista” (peccato che il terrorismo in Afghanistan non sia mai esistito fino all’arrivo dei salvatori occidentali), nonché “assassino dei nostri soldati in missione di pace” (ma guarda un po’: noi spariamo sugli afghani e quelli, anziché ringraziarci, rispondono al fuoco, assassini che non sono altro). Non contento, il “cattivo maestro” Fini “sostiene che i nostri militari eroi in Afghanistan sono degli odiosi invasori” (eroi? che c’è di eroico nell’occupare da 10 anni uno Stato sovrano?). E spiana la strada alla vera invasione, quella dell’islam in Italia, dove non a caso – denuncia la Maglie – dopo l’uscita del suo libro, “sono state aperte tre moschee abusive, imperversa Radio Islam in lingua italiana ed è ferma la nostra legge contro il velo integrale”. Il che, coi milioni di donne che girano col burqa in Italia, è davvero una grave lacuna. A tener compagnia alla Maglie c’è una confraternita di pulzelle, fra cui spicca la deputata Souad Sbai (ex Pdl, ex Fli, ri-Pdl). Ha firmato la denuncia, ma ha tenuto a precisare sempre su Libero (ah ah) che “il libro non l’ho letto e non lo leggerò mai”. Vien da rimpiangere Khomeini: lui almeno, prima di scomunicare i Versi satanici di Rushdie, li aveva letti. Poveretto.

Arrestatelo

Domenica 17 aprile 2011 – Anno 3 – n° 91

Arrestatelo

Oggi 29 gennaio 1979 alle ore 8:30 il gruppo di fuoco Romano Tognini ‘Valerio’ dell’organizzazione comunista Prima linea ha giustiziato il sostituto procuratore della repubblica Emilio Alessandrini… uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la procura della repubblica di Milano... nel tentativo di ridare credibilità democratica e progressista allo Stato”. Con questo volantino, 31 anni fa, i terroristi rossi di Prima Linea rivendicavano l’assassinio del pm milanese che in quel momento indagava sulla strage nera di Piazza Fontana. Cioè tenevano a far sapere di averlo eliminato proprio per i suoi meriti, perché Alessandrini era bravo, onesto e con la sua competenza, professionalità e dedizione onorava lo Stato e le istituzioni che i brigatisti non riconoscevano, anzi volevano abbattere. Oggi, a non riconoscere lo Stato e le istituzioni e ad abbatterli un pezzo al giorno, non sono più i terroristi, fortunatamente estinti: sono il presidente del Consiglio e la sua vasta corte di servi felici, alleati venduti e figuranti a gettone. E sono molto più pericolosi dei terroristi (che finirono involontariamente per rafforzare il sistema, mentre quelli lo picconano dall’interno), perché nessuno – tranne poche e flebili voci – ne denuncia la pericolosità, perché controllano militarmente le istituzioni e le televisioni, e soprattutto perché hanno l’immunità e purtroppo non possono essere arrestati. Al posto dei mitra, usano come armi le leggi, le tv, i giornali. E, dall’altro giorno, anche i manifesti anonimi, come quelli apparsi a Milano con uno slogan che fa impallidire, per carica eversiva, i volantini di Prima Linea: “Via le Br dalle procure”. Il Corriere della Sera, che appena qualche testa calda disegna una stella a cinque punte nel cesso di una fabbrica lancia l’allar me in prima pagina contro il ritorno del terrorismo, ha relegato la notizia a pagina 13 in basso a destra. Il giorno prima invece, aveva sbattuto in prima pagina Asor Rosa, gabellandolo per un novello Junio Valerio Borghese pronto a marciare su Roma al grido di “Tora Tora ”. Ora, di quei manifesti firmati “Associazione dalla parte della democrazia”, è ignoto solo il tipografo. L’ispiratore e l’autore dei testi si chiama Silvio Berlusconi, che ieri ha paragonato i magistrati (quelli, si capisce, che si occupano di lui) a un’“associazione a delinquere”, s’è vantato di aver imposto processo e prescrizione breve “per tutelarmi” (dalla Giustizia) e tre giorni fa, davanti alla stampa estera, ha farneticato di “giudici brigatisti”. Nemmeno una sillaba è trapelata dal Quirinale contro questi proclami terroristici. Con ben altra determinazione avevano reagito Scalfaro e Ciampi, quando in passato B. aveva vomitato analoghi deliri: “In tutti i settori ci possono essere corpi deviati. Io ho una grandissima stima per la magistratura, ma ci sono toghe che operano per fini politici. Sono come la banda della Uno bianca (14.3.96)”, “Come anni fa la sinistra si è saputa distinguere da chi faceva la lotta armata, anche oggi deve dividere la propria responsabilità da chi fa lotta politica con le sentenze. La sinistra deve isolare certi pm come fece con le Brigate rosse” (8.8.98), “Negli anni ‘70 c’era la volontà di abbattere lo Stato borghese con l’uso della violenza. La sinistra seppe distinguere la sua responsabilità da quella delle Br. Spero che oggi faccia la stessa cosa nei confronti dei giudici giacobini” (17.3.99), “Resisteremo ai colpi di giustizia, di piazza e di pistola che non fanno parte della democrazia” (26.3.2002). Significativamente, la prima di queste frasi fu pronunciata a commento dell’arresto del giudice Squillante, il cui nome era sul libro paga di B. e Previti assieme a quello di Vittorio Metta (vedi alla voce Mondadori). Per lui gli unici giudici buoni sono quelli corrotti: quelli onesti, quelli bravi sono una minaccia. Infatti, in un’altra occasione, li definì “pazzi, antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Quelli sani prendono esempio da lui: fanno i delinquenti.

Il vice-bollito

Sabato 16 aprile 2011 – Anno 3 – n° 90

Il vice-bollito

Ha suscitato comprensibile sgomento nelle file del Pdl l’ipotesi che sia Angelino Jolie, al secolo Alfano, a succedere al Cainano quando verrà a mancare all’affetto dei suoi cari, ma soprattutto delle sue care. L’idea che questo allampanato e allampadato avvocaticchio agrigentino possa fare il leader di qualsiasi cosa, foss’anche una bocciofila o una filodrammatica, non può che seminare il panico nel centrodestra e risate omeriche dall’altra parte. E, siccome l’ha lanciata il Cainano, dà la misura di quanto questo sia bollito. Ma anche di quale sia il livello medio della classe dirigente Pdl, se un Alfano qualsiasi passa per il migliore (seconda classificata, per dire, la Gelmini; dal terzo posto in giù, alcune specie di alghe e plancton). In un paese serio, un partito che avesse fra le sue file un Alfano lo terrebbe ben nascosto, perché non si sappia in giro. Questi l’han fatto ministro della Giustizia, ruolo riservato a chi è disposto a tutto, anche a perdere la faccia, dunque è meglio se non ne ha una o l’ha già persa. Il tapino manifesta preoccupanti carenze non solo in diritto costituzionale e penale, ma persino in aritmetica elementare. Tre estati fa, per spiegare l’assoluta urgenza della sua legge bavaglio contro le intercettazioni, comunicò testualmente al Parlamento: “Secondo un mio calcolo empirico non scientifico, è probabilmente intercettata una grandissima parte del Paese. Le persone intercettate in Italia nel 2007 sono state 124.845. Ma poi ciascuna fa o riceve mediamente 30 telefonate al giorno. Così si arriva a 3 milioni di intercettazioni”. Difficile concentrare una tale densità di balle in così poche parole. Gli italiani intercettati ogni anno sono circa 6 mila (non “la grandissima parte del Paese”, ma lo 0,001% della popolazione). Poi è vero che parlano con altri (difficile che uno si telefoni da solo). Ma è improbabile che ciascun italiano ogni giorno parli in media con 30 persone. Ed è demenziale pensare che l’indomani parli con altre 30 totalmente diverse da quelle del giorno prima. Ma soprattutto: che vuol dire “secondo un mio calcolo empirico”? Il ministero della Giustizia ha un ufficio studi che sforna dati scientifici. Ma Alfano teme che quelli scientifici smentiscano le baggianate che dice e preferisce usare un suo personalissimo pallottoliere, ovviamente guasto. Lo stesso che ha consultato l’altro giorno prima di dichiarare al Parlamento che il disastro ferroviario di Viareggio si prescrive nel 2032 e gli omicidi colposi de L’Aquila nel 2044. Dunque la prescrizione breve non impedirà di celebrare quei processi: a suo dire, siccome i fatti risalgono rispettivamente al 2010 e al 2009, il disastro colposo si prescriverebbe in 22 anni e l’omicidio colposo plurimo in 35. In realtà si prescrivono al massimo in 12 e mezzo e in 19. La metà di quel che dice Alfano. Ma, siccome gl’imputati sono incensurati e qualche attenuante spetta loro di diritto, la prescrizione scende a 7 anni e mezzo, che con la prescrizione breve diventano 7. Ergo bisognerà chiudere i processi in Cassazione entro il 2016-2017. Cioè, con buona pace di Alfano, si prescriveranno. Ora il premier ha designato questo Archimede Pitagorico a spiegare a Napolitano che la prescrizione breve è conforme alla Costituzione. L’impresa sarebbe titanica già per un giurista vero, visto che la legge è un concentrato di incostituzionalità (cambia le regole dei processi già iniziati e crea una disparità di trattamento fra le vittime di incensurati e quelle di pregiudicati): figurarsi per questo giurista per caso. Che sarà venuto in mente a B. di affidare la lezione sulla costituzionalità di una legge a un ministro che in due anni se n’è viste radere al suolo due dalla Consulta perché incostituzionali (“lodo” Alfano e legittimo impedimento)? Forse non ha trovato di meglio. O forse è davvero convinto che Angelino Jolie sia il meglio. Del resto, diceva Voltaire, “chiedete al rospo che cos’è la bellezza: vi risponderà che è la rospa”.


“Oltre”, pure troppo

Venerdì 15 aprile 2011 – Anno 3 – n° 89

“Oltre”, pure troppo

Con qualche rara eccezione, i libri dei politici non lasciano traccia alcuna se non nella foresta amazzonica. Ora, per dire, ne è uscito uno di Violante, ovviamente pubblicato da un editore del gruppo Mondadori, Viaggio verso la fine del tempo-Apocalisse di Lilith, che si stenta a crederlo ma è scritto in versi, o forse va spesso a capo per sembrare più lungo. La buonanima di Bondi, al confronto, era un dilettante. Intanto sta per uscire un libro-intervista di Bersani, la sua opera prima (e si spera anche ultima), che ha almeno il pregio di essere in prosa. Il titolo Per una buona ragione è civettuolo e intrigante quanto la campagna pubblicitaria che lo ritrae in bianco e nero e in maniche di camicia sotto il sepolcrale slogan “Oltre”. Da alcune anticipazioni, apprendiamo che il segretario Pd sostiene, accanto a cose giuste e condivisibili, tre tesi piuttosto bizzarre. 1) “Abbiamo un governo che non rispetta la divisione dei poteri e, negli anni, non sono mancate invasioni di campo anche da parte di alcuni magistrati... La politica riconquisti l’autorevolezza per dire ai magistrati di rispettare con rigore i confini del proprio campo”. 2) “Non mi sento affatto un giustizialista. Anzi, considero il giustizialismo un atteggiamento contrario ai nostri valori”. 3) “Purtroppo in questi anni la cultura delle garanzie e le garanzie stesse si sono assottigliate. E quando si indebolisce la cultura delle garanzie si ferisce anzitutto la democrazia”. 1) Quanto all’“invasione di campo” dei magistrati, è curioso sentir ripetere dal leader del primo partito di opposizione uno slogan tipicamente berlusconiano. L’accusa a imprecisati rappresentanti del potere giudiziario di calpestare il potere legislativo e/o esecutivo è gravissima: equivale a un golpe. Dunque va provata. Può darsi che Bersani abbia scoperto dei magistrati a invadere il campo della politica (si spera che la scoperta sia recente, altrimenti verrebbe da chiedergli perché non l’abbia denunciata nei sette anni in cui era al governo e poteva attivare il ministro della Giustizia a esercitare l’azione disciplinare). Se è così, dovrebbe essere così gentile da dire chi sarebbero, quando e in quali inchieste o processi l’avrebbero fatto. Così il Csm potrebbe accertare se l’accusa è fondata o no, gli interessati potrebbero difendersi e si verrebbe finalmente a capo di una diceria che corre da destra a sinistra da vent’anni senza mai un nome o una prova. 2) Il termine “giustizialismo” ha sempre indicato il partito del dittatore Perón nell’Argentina degli anni ‘40-‘50. Poi, inspiegabilmente, venne usata dal partito degli imputati e dei condannati per marchiare d’infamia chi invoca una legge uguale per tutti, anche per i ricchi e i potenti, e dunque una magistratura indipendente. Cioè chi chiede il rispetto della Costituzione che lo stesso Bersani ad Annozero ha definito “la più bella del mondo”. Vuol essere così cortese, il segretario Pd, da spiegarci che cosa intende per giustizialismo? Non risponda, per favore, che si riferiva a chi, ai tempi di Mani Pulite, agitava cappi alla Camera e a chi assediava il Parlamento al grido di “Arrendetevi, siete circondati”, perché nessuno nel centrosinistra ha mai fatto cose del genere: il cappio lo sventolò un leghista e l’assedio lo organizzarono i missini. 3) Quali “garanzie” sarebbero venute meno? A noi risulta che da 17 anni destra e sinistra non fanno altro che varare, in tema di giustizia, leggi scritte da onorevoli avvocati su misura per gli imputati colpevoli. E non risponda che per la gran parte le ha fatte B., perché tra il 2006 e il 2008 il centrosinistra governò, ma non ne cancellò nemmeno una. Ci sarebbe poi una domanda supplementare. Dopo mesi di agonia, grazie a B. e alla piazza che l’han costretto a fare un po’ di opposizione, il Pd si stava leggermente rianimando nei sondaggi. C’era proprio bisogno di sgonfiare quel vagito di entusiasmo che stava rinascendo negli elettori con tre tesi fasulle e tipicamente berlusconiane? A furia di andare “Oltre”, si arriva ad Arcore.


Arbitro venduto

Giovedì 14 aprile 2011 – Anno 3 – n° 88

Arbitro venduto

A furia di cercare gli “altri” processi che svaniranno nel nulla grazie a prescrizione breve, si perde di vista il principale motivo di incostituzionalità dell’ennesima porcheria approvata ieri a tappe forzate: la legge è fatta apposta per abolire il processo Mills a carico del mandante della legge medesima, imputato per aver corrotto un testimone che è già stato giudicato colpevole dalla Cassazione di essersi fatto corrompere da lui per testimoniare il falso e salvarlo in due processi. Ricapitolando. Dal 1994 B. è indagato e dal 1996 imputato perché quattro sue società, fra cui Telepiù, hanno corrotto la Guardia di Finanza per ammorbidire le verifiche fiscali. Se i finanzieri avessero fatto il loro dovere, avrebbero scoperto che B. era il proprietario occulto di Telepiù in barba alla legge Mammì e dunque la Fininvest avrebbe perso ipso facto le concessioni a trasmettere con Rete 4, Canale 5 e Italia 1. Cioè sarebbe fallita. Sapendosi colpevole e rischiando i denti, B. compra il testimone chiave Mills perché al processo Guardia di Finanza non dica tutto quel che sa sulle società off-shore del gruppo create da lui e usate per schermare la reale proprietà di Telepiù. Nel 1998 Mills, come racconterà lui stesso al suo commercialista in una lettera del 2004, fa la sua testimonianza reticente. Così B., per le mazzette alle Fiamme Gialle, viene assolto in Cassazione per insufficienza di prove: prove che sarebbero state sufficienti a condannarlo se Mills avesse detto tutta la verità. Nel novembre 1999 l’avvocato riceve 600 mila dollari in Svizzera da un manager Fininvest, Carlo Bernasconi: il prezzo della sua falsa testimonianza pro domo Silvii. Ma nel 2004 la sua lettera al commercialista viene scoperta dal fisco inglese e trasmessa alla Procura di Milano. Che, nel 2005, fa rinviare a giudizio lui e B. per corruzione giudiziaria. Essendo i fatti del '99 e prescrivendosi la corruzione giudiziaria in 15 anni, per giudicare corrotto e corruttore c’è tempo fino al 2014. Quanto basta per arrivare a sentenza definitiva. Infatti, nel giro di qualche settimana, B. fa approvare in tutta fretta dal Parlamento una versione emendata della legge Cirielli, talmente ignobile che la disconosce persino Cirielli. La legge ex Cirielli taglia la prescrizione per gli incensurati: per corruzione giudiziaria il reato si estingue non più dopo 15 anni da quando è stato commesso, ma dopo 10. Dunque, per fare i tre gradi di giudizio, c’è tempo solo fino al novembre 2009. In Tribunale inizia la corsa contro il tempo. B. si tira subito fuori con due leggi incostituzionali, che sospendono i suoi processi prima che la Consulta le fulmini: lodo Alfano e legittimo impedimento. Intanto si procede separatamente contro Mills, condannato in primo e secondo grado a 5 anni. Purtroppo la sentenza di Cassazione su Mills arriva solo nel febbraio 2010: per due mesi, il reato è prescritto, anche se la colpevolezza è confermata, tant’è che l’avvocato è condannato a risarcire la Presidenza del Consiglio (dove siede il suo corruttore) con 250 mila euro. Ma ciò vale solo per Mills: per B., tornato sotto processo, la prescrizione slitta di 2 anni e 3 mesi per recuperare il tempo perduto a causa delle leggi incostituzionali. C’è tempo fino al febbraio 2012 per giungere alla sentenza di primo grado e forse anche di appello (l’ultima di merito). Cioè di accertare se l’Italia è governata da un criminale o da un perseguitato. Essendo più probabile la prima che la seconda, ecco un’altra legge che taglia la prescrizione: non più 10 anni, ma 9 anni e 4 mesi. Così il processo muore a maggio, per evitare anche la sentenza di primo grado. La partita, quando iniziò, durava 15 anni. Poi il capitano di una squadra, temendo di perdere, si travestì da arbitro e decise che sarebbe durata solo 45 minuti. Ma temeva ancora di perdere, così ieri ha dato il fischio finale alla mezz’ora. Oggi andrà in tv, si ritravestirà da calciatore e dirà che ha vinto il migliore, cioè lui. Che aspetta l’arbitro, quello vero, a espellerlo?

Abbiamo un condannato

Mercoledì 13 aprile 2011 – Anno 3 – n° 87

Abbiamo un condannato

Si discute molto, a Torino, sulla decisione del Pd di candidare alle comunali l’ex socialista Giusy La Ganga, che nel '94, per vari episodi di Tangentopoli, patteggiò 20 mesi di reclusione e restituì 500 milioni di lire prima di lasciare la politica. Ferma restando l’inopportunità della candidatura, denunciata da Libertà e Giustizia, va ricordato che La Ganga fu il politico inquisito da Mani Pulite che si comportò meglio, o meno peggio: rinunciò all’immunità, non gridò al complotto, andò in Procura, confessò tutto e si fece da parte. Per 17 anni restò ai margini, ma siccome è malato di politica seguitò a farla senza incarichi nel centrosinistra. Ora si ricandida dopo aver pagato il conto con la giustizia e scontato una lunga quarantena: i cittadini saranno liberi di votarlo o di non votarlo, almeno alle comunali possono scegliere. Ma nel Pd torinese c’è un altro caso di cui si parla molto meno (anzi quasi per nulla) e invece merita più attenzione: la promozione di Giancarlo Quagliotti a “coordinatore politico” della campagna elettorale del candidato sindaco Piero Fassino. Chi è Quagliotti? Già dirigente “miglior ista” del Pci torinese, divenne nei primi anni ‘80 capogruppo al Comune e nel 1983 fu coinvolto negli scandali tangentizi del “caso Zampini” e dei “semafori intelligenti” (dai quali fu prosciolto). Nel 1993 fu di nuovo indagato per una tangente di 260 milioni di lire dalla Fiat al Pds (avete capito bene: la Fiat pagava anche gli ex comunisti). E fu condannato a 6 mesi assieme al suo sodale Primo Greganti per finanziamento illecito. La mazzetta riguardava l’appalto per il depuratore del consorzio Po-Sangone. La confessò alla Procura di Torino un manager della Fiat Italimpresit, Ulrico Bianco: nel 1987 un vecchio funzionario del Pci era andato a batter cassa per “r isarcire” il partito per gli appalti perduti dalle coop rosse: o sganciava 500 milioni, o il Pci si sarebbe messo di traverso nel Cda del consorzio, chiesto al Consiglio di Stato di annullare la gara e ostacolato la Fiat in altri appalti nelle zone più “rosse” del Torinese. La Fiat pagò una prima rata di 260 milioni e tutto filò liscio. Il manager che dispose il pagamento, Enso Papi, ammette pure lui l’episodio: il denaro approdò su due conti cifrati svizzeri, “Idea” e “Sor gente”, aperti rispettivamente da Quagliotti e Greganti. I due, a fine 1989, andarono in Svizzera e provvidero all’incasso e al rientro clandestino del denaro in Italia. A Milano, dove l’inchiesta è passata per competenza, il 1° marzo 1996 i due tesorieri occulti vengono condannati a 6 mesi di carcere: violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Nel ricorso in Appello, anziché spiegare perché mai avesse aperto un conto presso la Soginvest Bank di Lugano per incassare fondi neri, Quagliotti giura che della tangente non sapeva nulla. E aggiunge che, provenendo il denaro da una società estera (Sacisa, Fiat), la legge sul finanziamento dei partiti non vale. La Corte d’appello spazza via queste facezie e conferma le condanne: è provato che Greganti “aveva preso contatto con il Quagliotti e insieme a costui si era recato in Svizzera, dove aveva aperto un conto corrente, dal quale era successivamente transitata una parte della somma, che qualche tempo dopo aveva consegnato al primo; la residua parte della somma gli era stata data dal Quagliotti in due soluzioni, una di 50 e una di 80 milioni”. Se si fosse trattato di un normale contributo al partito, “non sarebbe stata necessaria la tortuosa e complessa procedura per farlo pervenire in Italia”. Sentenza confermata nel '97 in Cassazione: “I fatti sono incontestabilmente provati” e cosí la “piena coscienza dei due imputati di concorrere in un finanziamento illecito”, dunque la loro colpevolezza per l’“accreditamento terminale di una somma al Pci a titolo di finanziamento occulto”. Oggi Quagliotti, oltre ai 6 mesi, ha 69 anni e Fassino 62. Comprereste da loro una candidatura usata?


Il Redentore

Martedì 12 aprile 2011 – Anno 3 – n° 86

Il Redentore

Per incastrare B. non è necessario intercettarlo: basta lasciarlo parlare. Nelle dichiarazioni spontanee del 2003 al processo Sme, dov’era accusato di un bonifico da un suo conto svizzero a uno di Previti a uno di Squillante, tenne al tribunale una memorabile lezione su come si corrompe un giudice pagandolo cash: “Ma vi pare che, se uno versa 500 milioni destinati a un fine illecito, fa un versamento da conto a conto in modo che sia facilissimo ricostruirlo? Ma anche il più ingenuo dei managers a che questa dazione illecita si deve fare con un versamento in contanti. Quindi la cosa più normale era che uno si mettesse la mano in tasca e tirasse fuori dei soldi senza nessuna registrazione”. Si capiva che parlava per esperienza. Infatti non gli venne proprio in mente di dire: ma vi pare che un uomo onesto come me possa anche solo pensare di corrompere un giudice? L’on. avv. Pecorella, seduto al suo fianco, sudava e pregava sottovoce che finisse presto. Poi lo prese di peso e, prima che confessasse anche il resto, lo trascinò via. Ieri, in passerella al processo Mediaset, B. s’è un po’ confuso, ha parlato di un altro, il processo Ruby. Da mesi un esercito di avvocati, parlamentari, giornalisti e intellettuali da riporto ripetevano a macchinetta che lui non lo sapeva che Ruby fosse una prostituta, anzi pensava che fosse la nipote di Mubarak. I più temerari (tipo Ferrara, Sgarbi e Squacquadanio) negavano addirittura che Ruby avesse mai fatto la prostituta, anzi “sono i pm che diffamano quella povera ragazza dandole della puttana”. Poi, tomo tomo cacchio cacchio, arriva lui. E, fresco come una rosa, se ne esce con un’altra confessione delle sue: “Pagavo Ruby perché non facesse più la prostituta e aprisse un centro estetico per la depilazione”. In pochi centesimi di secondo, vanno in fumo mesi di lavoro dei suoi trombettieri. Tutto da rifare. La nuova versione, per quanto tragicomica, non è nuova negli ambienti della papponeria. I mattinali sono pieni di gentiluomini che han visto Pretty woman e, sorpresi dalla polizia in un boschetto con la patta aperta e i soldi in mano in compagnia di certe tipe in abiti succinti, si travestono da redentori: “Tutto regolare, agente, stavo appunto pagando la signorina per salvarla dal marciapiede”. In ogni caso, senz’accorgersene, B. ammette che Ruby si prostituiva e lui lo sapeva. Tant’è che la pagava perché smettesse. Resta da capire perché, oltre ai soldi cash e alla buste di Spinelli, la riempisse pure di gioielli per centinaia di migliaia di euro. Da quando in qua si addobba una ragazza di collane, braccialetti, monili, orologi pregiatissimi perché apra un centro estetico? O forse era una gioielleria? Già che c’è, B. ripete pure che lui la credeva la nipote di Mubarak. Prostituta e contemporaneamente nipote. Meno male che Mubarak è un po’, diciamo così, impedito, altrimenti marcerebbe su Arcore per chiedergli spiegazioni: come ti permetti di insinuare che mia nipote batte i marciapiedi? Ma guardati la tua, di famiglia. Non vorremmo essere nei panni degli on. Avv. Ghedini e Longo, costretti ogni giorno a ricalibrare la difesa in base agli ultimi deliri del cliente. Da ieri la loro Maginot si può riassumere come segue: B. riceve in casa sua una quindicina di volte una prostituta minorenne, che dopo eleganti bunga-bunga si ferma a dormire da lui; poi la copre d’oro per salvarla dalla prostituzione; poi la polizia la ferma per un furto e lui – avvertito da un’altra prostituta che ha il suo numero di cellulare perché lui sta cercando di salvare anche lei – chiama la questura per farla affidare alla Minetti che, per salvarla meglio, la consegna a un’altra prostituta; e lui, per essere più persuasivo, non dice che la ragazza va liberata perché è una prostituta minorenne che lui sta cercando di salvare, ma che è la nipote del presidente egiziano anche se è marocchina; e lui ne è davvero convinto, come del resto 314 deputati. Alla peggio, come al suo attentatore Tartaglia, gli danno l’infermità mentale.

Scene da un patrimonio

Domenica 10 aprile 2011 – Anno 3 – n° 85

Scene da un patrimonio

Era piuttosto in forma, ieri, il Cainano. Per l’intera giornata è riuscito a non pronunciare le parole “culo” e “figa” e a non raccontare barzellette sui due temi a lui più cari dopo i soldi. E, a proposito di soldi, è riuscito addirittura a dire una cosa vera sul caso Mondadori: “È una rapina a mano armata”. Solo che la mano è la sua e la rapina l’ha fatta lui. I giudici, regalandogli gentilmente le attenuanti e dunque la prescrizione, l’hanno definito il “privato corruttore” della tangente da 420 milioni di lire (soldi Fininvest) che i suoi avvocati Previti, Acampora e Pacifico versarono nel 1991 al giudice Vittorio Metta in cambio della sentenza che annullava il lodo Mondadori togliendo il primo gruppo editoriale al suo legittimo proprietario: Carlo De Benedetti. Lo afferma la sentenza divenuta definitiva nel 2007 in Cassazione che condanna tutti gli imputati tranne lui: “L’attività degli estranei (i tre avvocati tutti condannati, ndr) nella consegna del compenso illecito (al giudice condannato, ndr) si sostituisce a una condotta, che altrimenti sarebbe giocoforza posta in essere in via diretta dal privato interessato (Berlusconi, ndr)... La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell’interesse e su incarico del corruttore (Berlusconi,ndr)”. La Cassazione stabiliva poi che la Fininvest deve risarcire a De Benedetti, in sede civile, “tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, sotto una molteplicità di profili relativi non solo ai costi effettivi di cessione della Mondadori, ma anche ai riflessi della vicenda sul mercato dei titoli azionari”. Perciò due anni fa il giudice civile Raimondo Mesiano condannò la Fininvest e B., i rapinatori, a rimborsare l’Ingegnere rapinato con 750 milioni di euro. Ieri, non contento del linciaggio operato dai telemanganelli di Canale 5, il premier è tornato a minacciare Mesiano: “A Milano c’è un giudice, di cui potrei dire molto, che ha formulato un risarcimento di 750 milioni per la tessera numero 1 del Pd, De Benedetti”. In attesa del nuovo scoop sul giudice dal calzini turchesi (Canale 5 deve aver scoperto il colore dei suoi boxer), tutti dovrebbero sapere che quando l’Ingegnere fu scippato della Mondadori il Pd non esisteva e mancavano tre anni alla discesa in campo del Cavaliere (che fra l’altro potè avvalersi della casa editrice rubata per imbonire gli italiani): dunque la politica, in questa vicenda, c’entra come i cavoli a merenda. Ma è improbabile che lo scelto uditorio che ieri ascoltava in deliquio il delirio di B. abbia afferrato questa sottigliezza. Si tratta di un nuovo gruppo politico nato per l’occasione dalla fertile fantasia di Kiwi Rotondi e Fernandel Giovanardi, che si fanno chiamare “Cofondatori” per rammentare al distratto Cainano che esistono anche loro. Lui li ha liquidati con la promessa di “mettere presto mano al partito”, cioè di inventare qualche nuova cadrega, e soprattutto del “quoziente familiare” (ci sta lavorando con Ruby, la Minetti e Lele Mora): “Se i 50 milioni non li trova Tremonti, ve li do io” (cioè il ragionier Spinelli). Quelli, gente di bocca buona, si son bevuti tutto come sempre. Un po’ come le comparse che poco dopo l’hanno riaccolto a Lampedusa, dove ha annunciato lo “svuotamento dell’isola”, peraltro ancora piena di immigrati, e l’acquisto di una nuova villa a Cala Galera che è proprio il posto giusto per lui (non è ben chiaro se al posto o in aggiunta a quella acquistata una notte su eBay, situata sulla pista dell’aeroporto, per 2 milioni di euro: una sòla degna di Wanna Marchi). Insomma, tutto bene. A parte il fatto che l’amico Belpietro ipotizza che B. sia ormai “bollito”; che l’amico Geronzi viene sparato via dalle Generali senza che lui nemmeno se ne accorga; e che la Merkel, con cui Frattini Dry aveva appena annunciato un asse privilegiato, lo manda affankulen sull’immigrazione. Lui comunque annuncia che troverà “un giudice a Berlino”. È la prossima riforma epocale della giustizia: i suoi processi traslocano in Germania.

Il Dottor Stracquadanio

Sabato 9 aprile 2011 – Anno 3 – n° 84

Il Dottor Stracquadanio

Non essendo riuscito a dissimularla ad Annozero,
tanto vale che io confessi la mia irrefrenabile passione per l’on. Giorgio Clelio Stracquadanio, milanese, classe 1959, già portaborse di Tiziana Maiolo antiproibizionista e rifondatrice comunista, poi deputato del partito più proibizionista e anticomunista della storia dopo una capatina nella Democrazia cristiana per le Autonomie, insomma “giornalista e politico italiano”. Appresa la notizia della sua partecipazione al programma di Santoro, un amico del Pdl mi aveva suggerito di insistere sul fatto che il tapino non è laureato, il che lo fa molto soffrire visto che si picca di essere un uomo di cultura prestato alla politica e se ne autocompiace nelle sue ospitate televisive finora confinate alla nicchia dell’Infedele dove anestetizza il pubblico con astruse dissertazioni storico-politologiche. Avevo però deciso di non usare questo argomento polemico per due motivi. 1) L’Italia è piena di geni senza laurea e di coglioni con due o tre lauree. 2) È una grande conquista della democrazia che accedano alle massime cariche dello Stato persone di ogni ceto e censo, incluso chi non ha potuto completare gli studi. Purtroppo però l’on. Giorgio Clelio se l’è cercata. Per il suo esordio nell’empireo della tv dei grandi numeri, si era messo tutto in ghingheri. Abito di sartoria vagamente metallizzato; scarpa lucidissima; toupet di saggina e licheni che, nonostante la tintura fresca a metà fra il mogano e il tramonto sul Bosforo, faceva scalino col colorito della chioma originale superstite; iPad ultimo modello da cui fingeva di attingere informazioni a getto continuo; sorriso d’ordinanza rimasto intatto dalla fresca visita a Palazzo Grazioli, dove aveva ricevuto il training presidenziale, il sacro viatico del capo e, a titolo di incoraggiamento, uno stock di cravatte Marinella. Poco prima del calcio d’inizio, un giro di campo per stringere la mano agli altri ospiti, visibilmente entusiasta di essere stato invitato e, soprattutto, di essere Stracquadanio. Poi, appena avuta la parola, non l’ha più mollata. Era dai tempi di Elio Vito, l’altro misirizzi ex-radicale che mitragliava “comunista - comunista - comunista” contro chiunque si permettesse di parlare prima o dopo di lui, che non si vedeva in tv un guastatore tanto molesto. Raggiunto finalmente, all’età di 52 anni, il suo attimo di celebrità, ha deciso di sfruttarlo fino in fondo per poi tornare dal capo e riceverne stavolta, in segno di gratitudine, una farfallina dorata o una Mini Cooper al posto delle consuete cravatte. Così ha iniziato a incrementare l’inquinamento acustico e visivo, per giunta in fascia protetta, facendo la punta a qualunque cosa si dicesse in studio. “Bindi, non può dire queste cose”, “Santoro, sia preciso”, “La Costituzione è una cosa seria, bisogna conoscerla”, “È falso che Ruby sia stata fermata per furto” e altre baggianate. Il top l’ha toccato quando, fra una prolusione sulla storia del comunismo e una sugli anni di piombo, tutti temi di bruciante attualità, ha dato lezioni di giornalismo a Santoro e Valentini, di procedura penale a Boccassini e Bruti Liberati, di diritto costituzionale a Rosy Bindi (già assistente del giurista Vittorio Bachelet). A quel punto era proprio obbligatorio sapere da quale cattedra eserciti le sue libere docenze. E dall’alto di quale titolo di studio. Cepu? Laurea per corrispondenza? Scuola Radio Elettra? Master coi punti della Miralanza? Erano, queste, le sole domande in grado di azzittirlo: avrebbe dovuto rispondere come Mourinho “zero tituli” e non gli pareva il caso. Così taceva, arrossiva, divagava. E, se uno non riusciva a trattenere le risa, intimava “Lei non r ida”. Ho risposto: “Smetterò di ridere quando lei smetterà di farmi ridere”. “Ma io quando parla lei non rido”. “Si vede che io non faccio ridere”. Al termine, dopo aver disgustato milioni di telespettatori, s’è molto beato della performance auspicando dall’imbarazzata redazione di Annozero nuovi e copiosi inviti: “Sono andato bene, mi pare: abbiamo volato alto”. Come no: Icaro e Pindaro gli fanno una pippa.

La prima svolta

Venerdì 8 aprile 2011 – Anno 3 – n° 83

La prima svolta

Avevamo auspicato, in questa colonna e in un bellissimo articolo di Roberta De Monticelli, che tutta l'opposizione autorizzasse la magistratura a eseguire l'arresto del senatore dalemiano Alberto Tedesco. E il nostro auspicio è stato accolto quasi per intero. A parte il solito Marco Follini - che confonde il garantismo con l'impunità e forse si crede ancora vicepremier del governo Berlusconi, infatti s'è astenuto - la delegazione Pd nella giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ha votato contro la proposta del relatore Pdl, Alberto Balboni, di negare l'ok ai giudici. Idem l'Udc e (come sempre) l'Idv. Il percorso che ha portato al voto, per la verità, non è stato dei più lineari. Divisi alla mèta (2 pro arresto e 7 contro), i 9 piddini della giunta han tentato fino all'ultimo di rinviare il voto alle calende greche, a dopo il 14 aprile, quando il Riesame deciderà se confermare o annullare l'ordine di custodia per Tedesco. Poi hanno sperato che, a levar loro le castagne dal fuoco, provvedessero i senatori del centrodestra, che quando si tratta di impunità per la Casta votano sempre col pilota automatico: bastava che la maggioranza facesse come sempre e il Pd avrebbe potuto far bella figura con gli elettori votando pro arresto nella certezza che comunque avrebbero vinto i contro. Invece la Lega Nord ha riscoperto lo spirito beffardo dei bei tempi, anche perchè i suoi elettori non ne possono più di vederla tenere il sacco alla Casta: ed è uscita dall'aula. Così l'opposizione è diventata maggioranza e i suoi voti sono risultati decisivi per la sorte di Tedesco. Ma, in ogni caso quello che conta è il risultato finale: centrodestra spaccato (i 9 Pdl contro l'arresto, i 2 leghisti sull'Aventino) e centrosinistra compatto (8 Pd, 1 Idv, 1 Udc pro arresto, 1 solo astenuto). Ora, bocciata la relazione Balboni, la giunta dovrà nominare un nuovo relatore espresso dalla nuova maggioranza (probabilmente uno del Pd), che dovrà essere coerente con le posizioni espresse finora: niente fumus persecutionis contro Tedesco, dunque sì al suo arresto. Si spera che ciò avvenga prima del 14 aprile, cioè prima del Riesame: se la legge è uguale per tutti, i senatori devono andare in galera quando lo decide il gip; poi, se il Riesame li libera, escono. Come gli altri comuni mortali. A quel punto, salvo ignominiosi ripensamenti, la parola passerà all'aula. E anche lì i capigruppo delle opposizioni dovranno vigilare per evitare giochetti e trucchetti dell'ultim'ora: il sì o il no all'esecuzione dell'ordine del giudice dipenderà da loro, visto che il capogruppo Pdl Gasparri annuncia: “Usciremo dall'aula così vedremo cosa farà il Pd”. Si crede furbo, il poveretto. E non s'accorge che, così facendo, il Pdl che ha salvato dal carcere i Dell'Utri, i Previti, i Cosentino e tanti altri, sta servendo a questo scombiccherato centrosinistra un assist formidabile. Se alle parole seguiranno i fatti, per la prima volta nella storia repubblicana il Parlamento italiano autorizzerà l'arresto di un suo membro accusato di reati contro la pubblica amministrazione: corruzione, concussione, turbativa d'asta, falso, abuso d'ufficio. Finora, in 63 anni, la Camera aveva autorizzato solo quattro arresti: due per omicidio (Moranino e Saccucci) e due per eversione e armi (Abbatangelo e Negri). L'altra sera a Exit il Pdl Lucio Malan evocava quei precedenti per teorizzare che i parlamentari possono finire in galera solo se ammazzano o sparano. Se rubano o mafiano, gli altri fanno da palo. Il che dà il senso del miracolo che potrebbe illuminare Montecitorio, dove l'assenza di berluscones e leghisti regalerà alle opposizioni un'insperata occasione di riscatto. Rimaste sole in aula, potranno dire con orgoglio non ai loro elettori, anzi a tutti gl'italiani: “Oggi finisce l'èra dell'impunità e inizia quella dell'uguaglianza”. C'è pure il caso che qualche astenuto cronico torni a votare per loro. Riusciranno i nostri eroi a non trasformare l'assist in autogol?

I cazzari

Giovedì 7 aprile 2011 – Anno 3 – n° 82

I cazzari

Come volevasi dimostrare, tanto rumore per nulla. Il deposito dei brogliacci con quattro telefonate fra Papi e le Papi-girl non è un reato né un errore, ma – come abbiamo scritto ieri – un atto dovuto per legge a tutela dei diritti di difesa del premier. Una mossa “garantista” spacciata dai soliti cazzari per l’ennesimo agguato delle toghe rosse al povero Silvio. I fatti, ricostruiti per filo e per segno dal procuratore Edmondo Bruti Liberati, sono di una semplicità elementare. Da agosto a ottobre, quando l’indagine sul caso Ruby è agli inizi e B. non è ancora indagato (lo sarà solo a dicembre), vengono intercettate alcune ragazze del suo giro, tra cui la Minetti, che parlano con lui della faccenda. La polizia giudiziaria riassume nei brogliacci le parti più significative, trascrivendo quelle che potrebbero avere rilevanza penale, e via via le consegna alla Procura. I pm le usano per giustificare la richiesta di proroga delle intercettazioni delle ragazze. Poi, per uno scrupolo garantista che va ben oltre la legge, ordinano agli agenti di coprire con omissis i dialoghi in cui compare la voce del premier. Se alla fine decideranno di usarle contro B., le faranno trascrivere da un consulente tecnico per inviarle alla Camera e chiedere l’autorizzazione a utilizzarle nel processo. Ma a gennaio, tirando le somme per il giudizio immediato contro B., la Procura ritiene di aver abbastanza indizi: le intercettazioni, nei confronti di B., sono superflue; ma potrebbero rivelarsi utili nel processo-stralcio a Minetti, Fede e Mora. Infatti nel fascicolo del processo a B. non vengono allegate; nell’altro si vedrà e per questo non vengono distrutte. Ma bisogna avvertire gli avvocati di B. che esistono: vedi mai che Ghedini e Longo le ritengano utili alla difesa e chiedano al tribunale di acquisirle; o che un domani ne scoprano l’esistenza nelle carte dell’altro processo e accusino i pm di averle imboscate per ledere i diritti dell’illustre cliente. Perciò, in ossequio al Codice di procedura e alla legge Boato (intercettazioni indirette dei parlamentari), la Procura deposita i quattro brogliacci e tutti gli altri file audio ai difensori di B. Non dunque nel processo a B. (lì quelle intercettazioni sono inutilizzabili). Ma nel fascicolo riservato a Ghedini e Longo. Da quel momento gli atti non sono più segreti. E guarda caso finiscono sul Corr iere, che parla di errore della Procura (“Le conversazioni non dovevano essere trascritte”). Secondo voi, se quelle carte le avevano solo i difensori di B., chi le ha passate al Corriere per farle pubblicare proprio alla vigilia della prima udienza? Si ripete il copione del 21 novembre '94, quando l’entourage di B. soffiò al Corr iere la notizia che il premier era indagato per le tangenti alla Guardia di Finanza, per poi strillare contro la fuga di notizie sul Corriere. L'altroieri, replay: anziché del premier imputato di concussione e prostituzione minorile, si parla dell’errore e/o abuso e/o reato della Boccassini. Cicchitto, Leone, Napoli, Quagliariello, Brambilla, Casellati, Santanchè (e dunque Sallusti) e altri noti giureconsulti arcoriani si scatenano, mentre un Ghedini insolitamente moderato se la prende più per la pubblicazione delle telefonate che per la trascrizione. Sul carro dei mestatori salgono le solite truppe indigene di complemento. Gli ascari. Violante (mega-intervista al Giornale): “Le intercettazioni non andavano messe agli atti dalla Procura e non dovevano finire sui giornali, serve una rifor ma”. Latorre (al Tg3): “Fatto gravissimo”. E persino Zanda (“Grave e negativo”) e Fini (“Atto sbagliato che non doveva accadere”). Ci casca pure Mentana, che mette sullo stesso piano l’inesistente “er rore” della Procura e la vergogna del conflitto d’attribuzione appena votato dalla Camera dei servi. Poi Bruti Liberati dimostra che è tutto regolare, anzi doveroso. Ma nessuno se ne accorgerà. Sono vent’anni che questi picchiatori fanno così. Menano alla cieca il primo che capita, poi, quando si scopre che stanno menando la persona sbagliata, non è che si scusano: passano subito a menarne un’altra.

Montatura di montatore

Mercoledì 6 aprile 2011 – Anno 3 – n° 81

Montatura di montatore

Cicchitto: “Gravissima violazione della legge, intercettazioni indebite, strumentalizzazione della giustizia per fini politici”. Quagliariello: “Trascrizioni in assoluto spregio delle leggi e della Costituzione”. E via delirando. Figurarsi se i giureconsulti da riporto non s’inventavano qualche nuova balla alla vigilia del processo Ruby che leva il sonno al Cainano perché non è ancora riuscito a escogitare una legge che lo fulmini. Il pretesto gliel’ha scodellato su un piatto d’argento il Corriere della Sera che, accanto allo scoop su tre telefonate fra altrettante Papi-girls e B., pubblica un commento dal titolo “Le conversazioni che non dovevano essere trascritte”. Che cos’è accaduto? Fra le 20 mila pagine dei 20 faldoni di atti depositati dalla Procura di Milano agli onorevoli difensori di B., il Corr iere ha scovato tre foglietti esplosivi: quelli, appunto, che raccolgono i brogliacci di polizia giudiziaria con le trascrizioni di tre telefonate della Minetti, della Polanco e della Skorkina, intercettate mentre parlano con B. (e pare ce ne sia qualcun altro). Il Corriere le pubblica e fa benissimo: il contenuto è molto interessante, dal punto di vista sia giudiziario sia politico. Fin dal 1° agosto 2010, quattro mesi prima di essere indagato e tre settimane dopo il primo interrogatorio di Ruby, B. già sapeva che c’era un’inchiesta che poteva riguardarlo e si attivava per rastrellare testimonianze sul fatto che la minorenne si fosse spacciata per maggiorenne. Prometteva soldi, anzi “benzina” a una ragazza rimasta a secco, tramite il solito Spinelli; un posto in Parlamento alla Minetti; e contratti in Mediaset alla Polanco. Ma soprattutto a convocare le testimoni per le indagini difensive, non era lo studio Ghedini, bensì la segretaria del premier, che già che c’era suggeriva pure la versione da fornire all’onorevole avvocato (“costruire e verbalizzare la normalità delle serate del presidente B.”). Un caso da manuale di inquinamento probatorio e di subornazione del teste, roba da arresto in flagrante. Invece, sorprendentemente, la Procura ha deciso (almeno per ora) di chiudere un occhio sulle anomalie delle indagini difensive e sulle manovre di B. per costruire testimoni ad personam. Così quelle telefonate, legittimamente intercettate sui telefoni di private cittadine, non sono state inviate alla Camera per il via libera a usarle contro il premier. Nel 2005, però, la Consulta ha stabilito che, quando un parlamentare viene intercettato mentre parla con un privato sul telefono di quest’ultimo, la conversazione può essere usata tranquillamente contro il privato senza passare dalle Camere. Dunque non si vede perché – contrariamente a quanto scrive il Corriere – quelle conversazioni non avrebbero potuto essere trascritte. Nessuna legge lo vieta e del resto è prassi normale che la polizia giudiziaria stili dei brogliacci, ora riassumendo ora trascrivendo i dialoghi più interessanti, perché il pm li legga, li valuti e decida se e contro chi utilizzarli. Contro B. la Procura non li ha utilizzati, ritenendoli superflui. Ma potrebbe usarli contro la Minetti (nel processo parallelo a lei, Mora e Fede), visto il loro contenuto pesantemente indiziante sul giro di prostituzione ad Arcore e sulle varie modalità di “pa gamento” delle Papi-girls. Per questo non ha distrutto quei brogliacci. Ma, anche se avesse deciso di distruggerli, avrebbe dovuto depositarli ai difensori di B. e degli altri intercettati, a garanzia dei loro diritti (vedi mai che, nelle telefonate, ci fossero elementi utili alla difesa). E così è stato fatto. Nessun abuso, nessuna violazione di legge, anzi un doveroso scrupolo garantista che non porterà alcun vantaggio all’accusa (le intercettazioni, non essendo passate per la Camera, sono inutilizzabili almeno contro B.). Infatti per Rosa Santanchè “la Procura ha commesso un reato grave con subdoli intenti politici”. E per Olindo Sallusti, detto il Fotocopia, “la Boccassini ha commesso un reato e dev’essere processata”. La prova migliore che è tutto regolare.

Pd, ultima chiamata

Martedì 5 aprile 2011 – Anno 3 – n° 80

Pd, ultima chiamata

Domani, salvo ennesimo rinvio, la Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato voterà pro o contro l’arresto del senatore dalemiano del Pd Alberto Tedesco, disposto due mesi fa dal gip di Bari Giuseppe De Benedictis per corruzione, concussione, turbativa d’asta e falso (Tedesco li avrebbe commessi per favorire le aziende di famiglia con le Asl quand’era assessore regionale alla Sanità nella prima giunta Vendola, prima di approdare in Senato al posto di Paolo De Castro, volato a Strasburgo). Com’è noto, il Senato non è chiamato a valutare se Tedesco vada arrestato o no: questo l’ha già deciso un giudice terzo. Il Senato deve solo autorizzare l’esecuzione dell’ordine di custodia, salvo che ravvisi nell’inchiesta un fumus persecutionis ai danni del senatore. Cioè dimostri che non esiste alcun indizio a suo carico, ma solo la volontà congiunta di procura e gip di perseguitarlo con accuse infondate. Ma nessun membro della giunta, lette le migliaia di carte con intercettazioni e testimonianze, ha osato sostenerlo. Dunque il discorso, secondo la legge e la Costituzione, è chiuso: Tedesco deve andare in carcere, come i cinque coimputati che, non avendo avuto la fortuna di rifugiarsi in Parlamento, sono finiti ipso facto in cella. Invece da trent’anni il Parlamento respinge tutte le richieste di autorizzazione ad arrestare suoi membri. E senza mai giustificare i dinieghi con il fumus per secutionis, ma invadendo ogni volta il campo della magistratura. Come? Sindacando sulle esigenze cautelari (gravi indizi di colpevolezza e pericolo di fuga o di inquinamento probatorio o di ripetizione del reato), che sono competenza esclusiva del giudice e non del Parlamento. Anche stavolta andrà a finire così: Pdl e Lega, avendo salvato e dovendo salvare decine di compari di avventura dediti al crimine, non si lasceranno sfuggire l’occasione di salvare anche Tedesco, per poi passare all’incasso quando toccherà a qualcuno dei loro, o per rinfacciare l’incoerenza al Pd che, sull’impunità per i politici, predica bene in casa di Berlusconi & C e razzola male in casa propria. Dunque, se il Pd vuol essere credibile nella battaglia campale annunciata contro la nuova ondata impunitaria pro B. (prescrizione breve, processo morto, conflitto di attribuzioni e forse voto di improcedibilità nel processo Ruby), oggi i suoi nove senatori in giunta dovrebbero tutti autorizzare l’arresto di Tedesco. L’Idv, con Luigi Li Gotti, ha già annunciato che dirà di sì. Così finalmente vedremmo il centrosinistra compatto sul principio fondamentale dell’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. E, se Tedesco si salverà, sarà per il voto del centrodestra e della solita Udc, che in materia di impunità non ha nulla da invidiare a Pdl e Lega. Purtroppo le cronache dicono che i nove pidini sono divisi: due (Casson e Adamo) pro arresto, sette contro (tra cui il solito presidente della giunta, Follini). E questo sebbene nessuno (nemmeno il relatore del Pdl Balboni) ravvisi nella richiesta del gip il fatidico fumus persecutionis. A questo punto si attenderebbe una chiara pronuncia del segretario Bersani o della capogruppo Finocchiaro, invece incredibilmente il vertice del Pd ha deciso di lavarsene le mani: “Il partito – ha detto Bersani – non ha alcuna linea su Tedesco, non darà alcuna indicazione e non ha alcuna situazione da tutelare. Ho detto ai nostri di ritenersi completamente liber i”. Il Pd Sanna parla addirittura di “anomalie dell’inda gine” (ma, se ci sono, spetta al Riesame e alla assazione sanarle, non certo al Senato) e aggiunge: “Stabilito che non c’è fumus persecutionis, la questione va su un crinale politico: bisogna determinare quali siano oggi i reati considerati di eccezionale gravità ed è un limite che va fissato dal Parlamento”. Par di sognare: il Parlamento decide quali reati sono gravi e quali no, quali sono meritevoli di arresto e quali no, e non è affatto certo che lo siano la corruzione e la concussione. Ora, per dire certe scempiaggini, bastano e avanzano i Berlusconi e gli Alfano. A che serve, dunque, il Pd?

Credere, obbedire e leccare

Domenica 3 aprile 2011 – Anno 3 – n° 79

Credere, obbedire e leccare

Se non si professasse “liberale” ogni due per tre e non scrivesse perciò sul Corriere della sera, Piero Ostellino meriterebbe la considerazione pressochè nulla che si deve ai tipici intellettuali italiani che attaccano sempre il cavallo alla mangiatoia giusta: craxiani quando comanda Craxi, berlusconiani ora che comanda B., domani dipende da chi comanda. Invece molti lo credono un “liberale” per davvero, al punto che ha finito col crederci persino lui. Tant’è che nei suoi articoli - usati in molte sale operatorie al posto dell’anestesia totale e riassumibili quasi sempre nel motto “I love B.” - egli usa citare a sostegno delle sue corbellerie ora Tocqueville, ora Stuart Mill, ora Locke, ora Montesquieu, ora tutti e quattro insieme (ovviamente ignari e incolpevoli di tutto). Ieri, a riprova del fatto che B. dev’essere davvero malmesso, di articoli ne ha scritti addirittura due in un sol giorno: uno a pagina 1, l’altro a pagina 57. A pag.1 sostiene che “i pm processano B più per tigna che per obbligatorietà dell’azione penale”, dunque, in ossequio a un non meglio precisato “pensiero del 700 e dell’800”, urge la “separazione dei poteri”, ergo hanno ragione B. e Alfano a mettere il potere giudiziario al guinzaglio di quello politico. Sragionamento che ricorda il celebre sillogismo di Montaigne: “Il salame fa bere, bere disseta, dunque il salame disseta”. A pag.57 Ostellino definisce “ridicola” la presunta “intenzione” della Procura di Roma di “incriminare B. per concussione a seguito di una telefonata in cui chiedeva la chiusura di Annozero”, precisando che “di tale incriminazione non me ne potrebbe (sic, ndr) fregare di meno”. Resta da capire perché allora abbia deciso di ammorbarne i lettori, già duramente provati dal primo articolo. In ogni caso la Procura di Roma non ha alcuna “intenzione di incriminare” B. per le pressioni anti-Annozero: per il semplice motivo che, per quei fatti, B. è già indagato da più di un anno (prima a Trani e poi per competenza a Roma). Ostellino trova “r idicola” l’indagine perché, “se si perseguissero i politici che telefonano ai direttori di giornali affinchè non facciano scrivere i giornalisti sgraditi, il Parlamento sarebbe vuoto e i tribunali sarebbero pieni”. Evidentemente il “liberale”de noantri, quando dirigeva il Corr iere, riceveva pressioni da politici per non far scrivere giornalisti sgraditi e non faceva una piega, trovando la cosa assolutamente normale. Qui però gli sfuggono un paio di particolari. 1) La Rai non è un giornale privato è un’azienda pubblica i cui dirigenti - diversamente dai direttori di giornale - sono “incaricati di pubblico servizio”. 2) B., per far chiudere Annozero, non chiamò un direttore della Rai, ma alcuni membri dell’Agcom, che dovrebbe essere un’“autorità indipendente”, invece B. la tratta come il cortile di casa sua. Condotta che, a un vero liberale, dovrebbe far rizzare tutti i capelli in testa. Infatti a Ostellino “non potrebbe fregare di meno”. Anche perché costui non sa nemmeno quel che è successo. Siccome le notizie smentirebbero puntualmente ciò che scrive, le rimuove. Non legge i giornali, nemmeno quello che generosamente ospita i suoi delirii. Infatti si domanda “che è stato convocato a fare George Clooney fra i testimoni del processo Rub y”. Forse “per consentire ai pm di raccontare in famiglia di aver parlato con l’uomo che fa pubblicità alla stessa marca di caffè che si beve in casa e, magari, di averlo trattato con giusto distacco?”. Non sia mai che “la giustizia diventi avanspettacolo” per “epater le bourgeois”. Ora, è affascinante il sospetto che la Boccassini arda dal desiderio di raccontare in famiglia di aver conosciuto Clooney. Purtroppo per il nostro tapino, a chiamare Clooney come teste non è stata la Procura, ma l’on. avv. Niccolò Ghedini, difensore di B. Come hanno scritto tutti i giornali. Corr iere compreso. In tutte le pagine fuorchè nella numero 57. Lì è vietato l’accesso alle notizie per non disturbare Ostellino.

Giornalista a piè di lista

Sabato 2 aprile 2011 – Anno 3 – n° 78

Giornalista a piè di lista

Qualcuno si domanderà perché i berlusconidi sono tanto nervosi. La risposta, al netto delle sostanze psicotrope, è semplice: sentono prossima la fine. E ne hanno già vissuta una molto simile a questa. Trattandosi di vecchi arnesi dell’Ancien Regime, hanno impiegato vent’anni a elaborare il lutto per il crollo della Prima Repubblica e ad arraffare poltrone e prebende nella Seconda. Non avendo mai avuto idee, ma solo padroni, caduti quelli vecchi se ne son trovati di nuovi. Ora crolla di nuovo tutto e, come dice Corrado Guzzanti, “non c’è nulla di più difficile che leccare culi in movimento”. Vent’anni fa Ignazio La Rissa stava dalla parte di chi tirava monetine ai corrotti, esattamente come la Lega. Ora che le monetine le tirano a lui e alla Lega, visti come i nuovi simboli del magnamagna, dà fuori di matto. Poi c’è il battaglione degli ex socialisti: quando il muro di Bettino gli cascò addosso, temettero il peggio. Tipo dover fuggire all’estero o, peggio, andare a lavorare. Poi arrivò il Cainano,quello che lava più bianco, e li riciclò come nuovi. Ora tremano all’idea di doversi cercare, alla loro età, un nuovo padrino. Il più nervoso, comprensibilmente, è Giuliano Ferrara, quello del convegno con le mutande sulla testa, quello che ogni sera su Rai1 mette in fuga la gente che non è riuscito a mettere in fuga Minzolingua. L’altro giorno Alex Stille scrive sul suo blog che in nessun paese al mondo uno che ha fatto il ministro, il portavoce e il candidato di B. che gli paga tre stipendi per Il Foglio, Panora ma e Il Giornale, potrebbe andare in tv a parlare di B. Apriti cielo. Ferrara, colto da un travaso di colesterolo, spara su Stille a palle di lardo incatenate. Ricostruisce la propria carriera di “giornalista” e soprattutto di voltagabbana pagato dal Pci, dal Psi, dalla Cia, da B. ma soprattutto dai contribuenti. Poi, obnubilato dai supplì, imbastisce il seguente sragionamento: siccome io ero amico di Ugo Stille, suo figlio Alex non deve criticarmi, altrimenti è un “par ricida”.Concetto tipicamente mafioso della famiglia e dell’amicizia (per via ereditaria, fra l’altro). Il tutto condito con vari insulti a Stille e, già che c’è, a Enzo Biagi (“lobbista” e “giornalista re della serie B”). Biagi non c’entra nulla, per giunta è morto e non può rispondergli, ma soprattutto ha la grave colpa di aver avuto successo, mentre Ferrara non se l’è mai filato nessuno: nessuno compra i suoi libri, nessuno guarda i suoi programmi, nessuno legge i suoi giornali, nessuno lo vota quando si candida, nessuno ascolta i suoi consigli e, se fa gli auguri a qualcuno, quello si tocca. Poi il Platinette Barbuto si avventura sul terreno per lui impervio della libertà d’informazione, paragonandosi a due ex portavoce di presidenti americani –William Safire e George Stefanopolis – poi passati al giornalismo. In attesa che i due malcapitati lo querelino per l’accostamento, Stille fa notare una lieve differenza: Safire e Stefanopolis, prima di fare i giornalisti, “hanno dovuto tagliare qualsiasi rapporto professionale ed economico con la politica attiva”. Stiamo parlando degli Usa – che Ferrara cita a modello di continuo senza sapere neppure dove stanno – dove nei primi anni ‘80 il Wall Street Journal tolse all’analista Susan Garment, docente a Yale, la sua rubrica di prima pagina “La presidenza” perché si scoprì che quasi ogni giorno la signora e il marito frequentavano Ronald e Nancy Reagan. L’eccessiva intimità della Garment con l’oggetto della sua rubrica gettava un’ombra indelebile sulla sua imparzialità. Lo scorso anno l’anchorman dell’Nbc Keith Obermann fu sospeso dal video perché aveva dato un piccolo contributo finanziario, regolarmente registrato in ossequio alla legge, alla campagna elettorale di alcuni candidati democratici. Aveva finanziato dei politici, infatti l’hanno cacciato. Ferrara è finanziato da un politico, infatti è sempre lì.

Lei è vittima? Si discolpi

Venerdì 1 aprile 2011 – Anno 3 – n° 77

Lei è vittima? Si discolpi

Nel Paese di Sottosopra, sgovernato da un colpevole impunito per legge (fatta da lui), è perfettamente coerente che le vittime diventino colpevoli. È la nuova frontiera del garantismo all’italiana. Il Pompiere della Sera – che ha dedicato all’ennesimo rinvio a giudizio del suo editore Ligresti una notiziola rilevabile solo dal microscopio elettronico – racconta così gli insulti di La Russa a Fini: “Rissa alla Camera. Duro scontro tra ministro della Difesa e presidente della Camera”. Come se chi grida vaffanculo e chi se lo prende fossero sullo stesso piano. Pigi Cerchiobattista lamenta la “reciproca delegittimazione” da cui “nessuno esce con un profilo di decoro e di innocenza. Non la maggioranza... non l’opposizione... non i ministri che scambiano col presidente della Camera battute irripetibili... Difficile distribuire le colpe”. Già: bisognerebbe scrivere “La Russa” e “vaf fanculo”, per capire di chi è la colpa. A pagina 2 altro titolo memorabile: “Quel giorno davanti al Raphael che portò Craxi verso l’esilio”. Cioè latitanza, ma fa lo stesso. Sotto, Aldo Cazzullo denuncia: “18 anni dopo siamo ancora qui col Cavaliere, i magistrati, i processi politici...”. Processi politici? Questi sono processi “ai” politici, anzi a un politico, per reati comuni che con la politica non c’entrano nulla (mafia, stragi, corruzione, concussione, frode fiscale, appropriazione indebita, falso in bilancio, prostituzione minorile). Ma il meglio arriva a pagina 27, dove una settimana dopo l’arresto di un presunto truffatore accusato di aver raggirato 700 persone, si continuano a pubblicare le foto segnaletiche dei truffati. Soprattutto uno: Sabina Guzzanti. Da un anno, come le altre vittime, Sabina aspettava che la magistratura si muovesse, nella speranza di recuperare qualche euro di quelli affidati ai promoter del Madoff italiota. Poi, quando finalmente è scattato il blitz, s’è resa conto che non era peggio per lui. Ma per lei. Nel Paese di Sottosopra, stampa e tv han preso a sbattere in prima pagina le vittime, come se fossero loro a doversi vergognare. Solo perché alcune hanno il grave torto di non essere povere in canna o, peggio ancora, di essere famose. Orrore: un’attrice di sinistra ha dei soldi e, doppio orrore, non li tiene nel materasso, non li porta all’estero come certi editori del Pompiere, non fa scudi fiscali, ci paga addirittura le tasse, li investe e, triplo orrore, si fa truffare. Ce n’è abbastanza per massacrarla, dandole il resto che non s’era ancora presa per aver osato sbertucciare la destra e la sinistra mentre tanti paraculi se ne stavano acquattati aspettando che passasse la nuttata. Lei sulle prime la prende sul ridere e scrive un pezzo ironico per il Fatto, “Confesso, mi hanno truffata”, “Posso solo sperare nella clemenza di Minzolini. Sono un verme, chiedo solo di poter continuare a vivere nell’ombra”. Poi capisce che c’è poco da ridere. C’è una campagna di pestaggio con i soliti rimbalzi sul blog. Ecco il titolo di Libero: “La toccano nel portafogli e l’avida Sabina insulta i fan”. Ed ecco l’intervista-interrogatorio che le ha fatto, sul Pompiere divenuto piromane, Fabrizio Roncone. Un reperto dei nostri tempi: “Sabina Guzzanti è figlia di Paolo e sorella di altri due attori, Caterina e Corrado. Secondo il parere di numerosi esperti, il vero fuoriclasse del palcoscenico sarebbe Cor rado”, mentre Sabina ha pure la “voce nervosa, rauca, tremante”. Parte il terzo grado: “Allora, c’è questa storia della truffa...”, “Non sarà che a lei sembrano pazzesche e seccanti, molto seccanti, le critiche che le vengono mosse sul suo blog? Da giorni lei viene accusata, e rimproverata, di aver cercato guadagno facile coi trucchi della finanza...”, “Non offenda quelli che scrivono sul suo blog”, “Come mai è così prudente, signora? Non ha perso 400 mila euro?”, “È vero o no che lei avrebbe già recuperato parte del denaro?”. Domande che parrebbero eccessive anche se rivolte al truffatore. Roncone le riserva alla truffata. Secondo il parere di numerosi esperti, col truffatore sarebbe molto più conciliante.

L’isola del fumoso

Giovedì 31 marzo 2011 – Anno 3 – n° 76

L’isola del fumoso

L'altro giorno era andato in tribunale senza far nulla per distrarre l’attenzione da Lampedusa. Ieri è andato a Lampedusa per distrarre l’attenzione dal golpetto impunitario di giornata. Non riuscendo più a cambiare le cose, cambia posto alle telecamere. Ieri le ha portate nell’isola invasa dai profughi e si è esibito in una televendita degna della miglior Vanna Marchi. Altro che Mediashopping. Qualche sparuto lampedusano sventolava un paio di cartelli critici (tipo “fuori dalle balle”), ma è stato simpaticamente dissuaso (“mettete via 'ste minchie di cartelli”) da quel capolavoro di sindaco: un omone talmente corpulento che pare la custodia di Berlusconi. I coreografi del piazzista, del resto, avevano dato ordini precisi: solo ultras, altrimenti lui non fa il numero. È andato tutto bene: lui il numero l’ha fatto, tra cori da stadio “Silvio! Silvio!” scanditi dagli stessi che fino all’altroieri lo maledicevano e ora si bevono qualunque boiata. Una folla selezionata con cura, campione statistico di quel pezzo d’Italia che da 17 anni si offre volontaria per il bunga-bunga. Come dice il candidato Cetto La Qualunque, “ho capito il sistema, tu gli dici quattro cazzate e loro ti votano”. Da notare anche i sorrisi e i battimani compiaciuti dello sgovernatore Lombardo, che ancora due giorni fa minacciava fuoco e fiamme contro il premier e ora gli regge il moccolo tutto eccitato, col riportino in erezione. Unificando in una sola persona le figure, storicamente distinte, del buffone di corte e del sovrano, il Vannomarchi attacca con un aggiornamento degli imbonimenti sulla ricostruzione de L’Aquila “entro sei mesi” e sulla scomparsa della monnezza a Napoli “entro tre giorni, anzi due”: stavolta farà sparire migliaia di migranti “entro 48, massimo 60 ore”. Bravo! Bravo! Lo slogan – nota un lettore del nostro sito – è ispirato ai cartelli di certi bar sport: “Oggi non si fa credito, domani sì”. Dalla piazza, un lampedusano che non s’è bevuto totalmente il cervello domanda: “Scusi, dove vanno le navi coi profughi?”. E lui, lucido: “Lei sa giocare a scopa?”. Qualcuno teme un embolo, altri si domandano se adesso il bunga-bunga si chiami così. Segue una raffica di annunci mirabolanti, tutti accompagnati dal solito “Bravo! Bravo!”. “Stanotte mi sono attaccato a Internet e ho comprato una casa a Lampedusa: diventerò lampedusano anch’io”, moltiplicando così, da solo, il già elevato tasso di devianza nell’isola. “La casa è sulla costa francese, anzi a Cala Francese”. Così Sarkozy impara. “Si chiama Due Palme”. O due palle. “Porteremo qui un casinò...”. Ma forse, visto che verrà ad abitarci, voleva dire casino. “...e un campo da golf”, che insieme al polo è lo sport prediletto dai migranti. Poi “il governo candiderà Lampedusa al premio Nobel per la Pace”, ma anche al premio Oscar per la migliore sceneggiatura. “Attiveremo un piano del colore come quello che ho già realizzato in un paese della Lombardia”, per la precisione Milano 2, perché “vorrei che l’isola avesse i colori di Portofino”. E, siccome “ho visto poco verde”, è “necessario un piano di rimboschimento”. Vernice verde a volontà. Perché lui un tempo aveva sorvolato l’isola in elicottero e l’aveva trovata “verdissima” (forse era Antigua). E, siccome diventa lampedusano, “moratoria fiscale per un anno, ma anche oltre”. Bravo! Bravo! Senza contare che d’ora in poi “Rai e Mediaset trasmetteranno programmi per illustrare le bellezze di Lampedusa”, meglio se minorenni: sui palinsesti li decide lui, che al processo Mediatrade ha appena giurato di non occuparsi più di televisioni dal 1994. Possono fidarsi, i lampedusani? Ma certo che sì: “Come sapete, io sono solo prestato alla politica”. La quale, purtroppo, non l’ha mai restituito. Intanto spedisce il suo socio Tarak Ben Ammar a trattare per l’Italia col governo tunisino, manco fosse il ministro degli Esteri: Frattini, sventuratamente, gliel’hanno rimpatriato col foglio di via.