Confini

Sabato 17 aprile 2010 – Anno 2 – n° 116

Confini

Pur nella sfiga generale, gli elettori di centrodestra sono un filo meno sfigati di quelli di centrosinistra. Chi ama Berlusconi se lo tiene. Chi non lo ama vota Bossi. Chi non ama né Berlusconi né Bossi spera in Fini. Chi non ama né Berlusconi, né Bossi, né Fini, spera in Casini. In mancanza di un’alternativa credibile, il centrodestra s’è dato una struttura che contiene in sé un’ampia gamma di opzioni possibili: quella plebiscitaria, quella federal-separatista-xenofoba, quella nazional-repubblicana, quella gatto anzi cattopardesca. Dall’altra parte invece soltanto un campo di Agramante dove, per non scontentare nessuna identità, non c’è più alcuna identità. A parte quella di Di Pietro, che però stenta a uscire dall’orticello dell’Idv per parlare a tutto il centrosinistra. Tant’è che molti, nel centrosinistra, si son ridotti a sperare in Fini. Il quale, intendiamoci, è e resta una speranza. Per diventare o ridiventare una democrazia, l’Italia ha bisogno come del pane di un centrodestra normale, che faccia politica e non affari o reati, e Fini gli somiglia parecchio. Chissà che, mollando gli ormeggi da Arcore, non aiuti la nascita di un centrosinistra normale. Senza più Berlusconi a tenerlo in vita artificialmente, quel carrello di bolliti che è il Politburo del Pd potrebbe finalmente estinguersi e fare spazio a qualcosa di meno fossile. Hanno però ragione Flores d’Arcais e Galli della Loggia quando imputano a Fini di non aver ancora esplicitato chiaramente in che cosa consiste la sua Destra. Col rischio di prestare il fianco ai manganelli mediatici del Caimano, già da mesi impegnati a dipingerlo come un traditore succube delle “s i n i s t re ” e animato da sete di potere. Si tratta di calunnie, ovvio, ma nel regime mediatico non conta ciò che è vero. Conta ciò che “passa” dai media all’opinione pubblica. E i media sappiamo in che mani sono. Finora Fini s’è smarcato da Berlusconi su questioni cruciali e sacrosante, ma poco sentite dagli elettori di destra: fecondazione assistita, diritti degli immigrati e dei “diver si”, laicità, difesa delle istituzioni e della Costituzione. Sulle due ragioni sociali della politica berlusconiana – guerra alla libera informazione e alla magistratura indipendente – ha detto cose giuste, ma troppo balbettate. Soprattutto in occasione delle leggi vergogna, contestate a mezza bocca ma poi sempre votate. Sappiamo bene che non dipende da questioni ideali o programmatiche la fuga di molti (ex?) finiani da Fini nel momento del divorzio da B.: chi sta col padrone d’Italia ha soldi facili, poltrone a volontà, comparsate televisive e soffietti sulla stampa amica (cioè quasi tutta). Ma se Fini uscisse allo scoperto sventolando le bandiere della libera informazione e della legalità contro mafie, corruzione ed evasione fiscale potrebbe attrarre, o almeno far riflettere, molti elettori di centrodestra e, di riflesso, molti eletti. Le questioni sono caldissime. La critica ai cordoni stretti di Tremonti sarebbe più efficace se unita a un grande piano contro corrotti ed evasori, che consentirebbe di recuperare enormi risorse da destinare alle vittime della crisi (chi ha perso il lavoro e chi paga troppe tasse al posto di chi non le paga). Un codice etico per i partiti e i politici, che faccia finalmente piazza pulita dei condannati e dei compromessi (ieri il pg di Palermo ha chiesto 11 anni di carcere in appello contro Dell’Utri per mafia), rinverdirebbe la nobile tradizione della destra legalitaria in cui si riconobbero, in anni lontani, Ambrosoli e Borsellino. L’altro giorno Fini ha chiamato Gino Strada per parlare dei tre volontari arrestati-rapiti dalla polizia segreta di Kabul. La difesa dei “nostri ragazzi” impegnati sui fronti di guerra non può limitarsi al saluto militare. Visto che il governo traccheggia, il presidente della Camera potrebbe raccogliere l’idea semplice e chiara di Di Pietro: o il presidente fantoccio di Karzai ci restituisce subito i nostri connazionali, oppure le nostre truppe lasciano l’Afghanistan. L’orgoglio nazionale si difende anche così. Da destra.

Scappellamento a destra

Venerdì 16 aprile 2010 – Anno 2 – n° 115

Scappellamento a destra

Siore e siori, sempre più difficile! Pur di non opporsi, l’opposizione all’italiana chiamata Pd s’è prodotta ieri in un triplo salto mortale carpiato con avvitamento e scappellamento a destra, un numero mai riuscito né provato prima d'ora. Ricordate il decreto salva-liste che sanava ex post le illegalità nella presentazione delle liste Pdl a Milano e Roma? Bene, era illegale, incostituzionale e inutile. Illegale perché una legge del 1988 vieta i decreti in materia elettorale (onde evitare il rischio che si voti con una regola e poi, se il decreto non viene convertito in legge, quella regola decada dopo il voto e si debba tornare alle urne). Incostituzionale perché sanava solo le irregolarità di alcune liste e non di altre e perché cambiava le regole del gioco a partita iniziata. Inutile perché modificava per via parlamentare una legge regionale. Incuranti di questi dettagliucci, i presidenti del Consiglio e della Repubblica lo firmarono a piè fermo. Il Pd gridò allo scandalo (ma solo per la firma di Berlusconi: quella di Napolitano era ottima e abbondante), annunciò la fine del “dialogo sulle rifor me”, portò la gente in piazza del Popolo a protestare contro l’atto eversivo. Motivazione ufficiale, fremente di sdegno: “Se il governo indossa gli anfibi e scende in piazza con attacchi violenti contro le istituzioni, noi non restiamo certo in pantofole”. Qualcuno, chiedendo scusa alle signore, parlò financo di regime. Non contenti, due giorni fa i piddini organizzarono un’imboscata per affossare il decreto alla Camera, bocciandone la conversione in legge grazie alle consuete assenze nella maggioranza e alle inconsuete presenze nell’opposizione. Un miracolo mai accaduto prima: l’opposizione più stracciacula della storia dell’umanità riesce a mandar sotto il governo, senza sopperire con le proprie assenze – come invece era accaduto sulla mozione anti-Cosentino e sullo scudo fiscale – a quelle endemiche del centrodestra. Ma niente paura: l’illusione di un’opposizione che si oppone è durata l’espace d’un matin. Ieri il Pd, sgomento per l’inatteso e involontario successo, s’è subito pentito. Ha riposto gli anfibi, ha recuperato le pantofole di peluche ed è tornato al suo passatempo preferito: l’inciucio. Tenetevi forte, perché la notizia è grandiosa: onde evitare di invalidare le elezioni regionali appena tenute in base al decreto ormai defunto, la maggioranza più comica della storia ha presentato in fretta e furia una leggina per salvare gli effetti del decreto medesimo, ribattezzata dai magliari di Palazzo Chigi “legge salva-effetti”, e sbrogliare il gran casino creato dal Banana con la partecipazione straordinaria di Napolitano. Così il decreto, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra in meno di 24 ore. A quel punto qualunque persona sana di mente avrebbe mantenuto le posizioni di partenza: la maggioranza pro-decreto avrebbe detto sì sulla salva-effetti, l’opposizione anti-decreto avrebbe detto no. E infatti l’Idv ha detto no e perfino l’Api di Rutelli s’è astenuta. Indovinate come ha votato il Pd? A favore (a parte Furio Colombo e poche altre persone serie), a braccetto col Pdl e la Lega. Ne saranno felici le migliaia di persone che si erano fatte convincere a calzare gli anfibi e a scendere in piazza del Popolo contro “l’attacco violento alle istituzioni”. Era tutto uno scherzo. Il Pd era contro il decreto, ma non contro i suoi effetti. Tant’è che ieri ha contribuito a ripescarli. Un voto del tutto inutile, vista la maggioranza bulgara Pdl-Lega, ma comunque indicativo dell’amorevole trepidazione con cui i diversamente concordi del Pd seguono le porcate del Banana. Lui li insulta e loro lo salvano anche se lui non vuole. Per questo sbaglia il capogruppo dell’Idv Massimo Donadi quando afferma che non si tratta comunque di inciucio “perché il Pd non ha avuto nulla in cambio”. Gli inciuci dei centrosinistri col Banana sono sempre a senso unico: lui ci guadagna, quelli ci perdono. E’ un do ut des senza des. Ma quelli continuano. Si divertono così.

Coraggio, fateli ammazzare

Giovedì 15 aprile 2010 – Anno 2 – n° 114

Coraggio, fateli ammazzare

E' struggente, quasi commovente, la gara di solidarietà avviata dagli house organ del Partito dell’Amore per i tre volontari italiani di emergency arrestati-sequestrati in Afghanistan. L’altroieri il Giornale, per non esporli troppo, titolava a tutta prima pagina: “Terroristi, vittime o pirla”. Sommario: “A furia di giocare col fuoco talebano, gli uomini di Emergency si sono scottati. Forse stanno coi banditi, forse subiscono una rappresaglia. Ma che ci facevano le armi nel loro ospedale?”. Il soave epiteto “pirla” per tre italiani buttati in qualche cella buia di qualche carcere speciale non è una novità, per il Partito dell’Amore in versione cartacea: era già stato utilizzato da L i b e ro (direttore Feltri) nel 2003 per abbracciare idealmente il giornalista Enzo Baldoni rapito in Iraq e dunque definito “un pirlacchione”, un perdigiorno a caccia d’emozioni da Camel Trophy, sotto il simpatico titolo “Vacanze intelligenti” (l’autore della gaia trovata era Renato Farina, in arte Betulla, spia del Sismi). L’idea che quelli di Emergency siano solo dei medici che, rischiando la pelle senza nulla in cambio, ricuciono arti amputati dalla sporca guerra scatenata dall’Occidente contro uno Stato sovrano, non sfiora nemmeno il quotidiano di Littorio Feltri: in un amorevole ritratto firmato da Giancarlo Perna (lo stesso che vent’anni fa ribattezzò soavemente “Capo inetto” un santo laico come il giudice Antonino Caponnetto, che si era offerto volontario per sostituire a Palermo Rocco Chinnici appena ammazzato dalla mafia), Gino Strada viene dipinto come un “ideologo ributtante” che “è diventato chirurgo d’urgenza per dedicarsi ai teatri bellici”. Dinanzi a tanto amore, chiunque si sarebbe arreso. Invece L i b e ro , anzi Occupato, ha tentato di scavalcare il Geniale e ce l’ha fatta. Secondo il quotidiano di Maurizio Belpietro, già organo del Partito monarchico a spese dei contribuenti, la colpa dell’arresto-sequestro dei tre italiani è di Strada che, “comportandosi da fiancheggiatore ideologico dei terroristi, mette in pericolo i suoi collaboratori”. Uno che sabato “va in piazza sulla pelle dei tre” e così “rischia di complicare la situazione”. Insomma il fellone li vuole proprio morti. E dire che gli basterebbe lasciar fare ai ministri Frattini Dry e Ignazio La Rissa. Il primo, con riflessi da bradipo, annuncia che prima o poi manderà una lettera a Karzai. Il secondo dipinge gli arrestati come possibili terroristi “i n fi l t ra t i ” in Emergency e ha in mente un rimedio risolutivo per farli liberare: Strada “prenda le distanze da loro”, così li impiccano subito e non se ne parla più. A questo punto, per completare l’opera, scende in campo la madrina del Partito dell’Amore: Maria Giovanna Maglie, di cui s’ignorano le opere ma non le note spese. Indossa l’elmetto, infila la mimetica, monta sul tank ed esplode su L i b e ro una raffica di colpi di bazooka in forma di articolo. Il risultato è una prosa di rara delicatezza, in cui si ipotizza che i tre volontari nelle mani della polizia afghana siano “semplicemente dei ragazzotti un po’ coglioni, scusate volevo dire ingenui”. Tre poveracci”, per dirla in dolce stilnovo, subornati da quel “p ro fi t t a t o re ” di Strada, “furbo a fregare gli altri pro domo sua”, infatti “in queste ore si agita scompostamente” invece di aspettare in poltrona l’esecuzione dei suoi amici. Monna Maglie elenca alcune dichiarazioni di Strada contro le guerre, senz’accorgersi, poveretta, di darsi il bazooka sui piedi, perché esse dimostrano l’imparzialità di Strada fra guerre targate centrosinistra (Kosovo: Clinton-D’Alema) e centrodestra (Afghanistan e Iraq: B&B). Il titolo dell’articolo parla da solo: “Gli italiani in carcere in Afghanistan: Emergency nei guai per i deliri di Strada”. Ecco, siccome Strada ha idee che non garbano a Karzai, e dunque alla signora Maglie, allora gliene arrestano tre alla volta. E’ la democrazia da esportazione, l’amore che vince sull’odio. A Kabul come a Roma.

Frattini Dry

Mercoledì 14 aprile 2010 – Anno 2 – n° 113

Frattini Dry

E' sempre un piacere vedere il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Si ha sempre l’impressione che passi di lì per caso, e che a ogni domanda sulla politica estera dell’Italia si appresti a rispondere: “E che ne so, io, chiedete al ministro degli Esteri”. Fosse vivo Fortebraccio, si pentirebbe di avere sprecato due memorabili battute per un ministro socialdemocratico a lui caro: “Si fermò un’auto blu e non ne scese nessuno: era Tanassi”, “uomo dalla fronte inutilmente spaziosa”. L’altra sera, dopo l’arresto-sequestro dei tre medici italiani di Emergency a opera della polizia di Kabul (e forse dei nostri “alleati” inglesi), Nessuno Frattini sedeva amabilmente su una poltroncina bianca di Porta a Porta con l’aria di uno svagato frequentatore del Club del Polo in attesa del suo Martini Dry. “Lo vuole liscio o con seltz? Con o senza oliva?”. Con l’aria pensosa che gli è propria, sottolineata dal dito indice morbidamente poggiato sul mento, anch’esso inutilmente spazioso, ripeteva banalità che nemmeno Peter Sellers nei panni del giardiniere Chance, intervallate con molesta frequenza dall’avverbio “ov v i a m e n t e ”. Tant’è che anche nel telespettatore più distratto sorgeva spontanea una domanda: “Ovviamente che, visto che non stai dicendo niente?”. Ecco, lui è così: sempre sfuocato come Woody Allen in “Harry a pezzi”. Se uno vuol farsi una ragione del peso nullo del nostro Paese nel mondo, la faccia di Ovviamente Frattini è lì apposta. Da otto anni mandiamo miliardi e soldati in Afghanistan per soddisfare le frègole guerrafondaie di B&B, poi il governo-farsa che contribuiamo a tenere in piedi ci arresta tre connazionali e non ci avverte neppure. L’anno scorso, in piena crisi fra Georgia e Russia, i ministri degli Esteri europei si riunirono d’urgenza per prendere una posizione, tranne Frattini che preferì restarsene su un atollo delle Maldive per non dover prendere una posizione, visto che non ne aveva una. Allora scrivemmo che, forse, non era stato avvertito di essere il ministro degli Esteri. Ora finalmente l’hanno avvisato e lui ne è visibilmente compiaciuto, anche se non ha la più pallida idea di che cosa questo significhi. Se l’avesse, appresa la notizia dei tre arresti-sequestri, avrebbe subito alzato il telefono per farsi sentire con Karzai e gli “alleati” angloamericani che lo puntellano. Invece ha addirittura dato credito alla bufala di alcuni fantomatici funzionari afghani sulla confessione dei noti terroristi di Emergency: “Prego con tutto il cuore che non sia vero, altrimenti sarebbe una vergogna per tutti gli italiani”. La vera vergogna è che, prima di dar fiato alla bocca, il ministro degli Esteri non abbia verificato tramite i canali diplomatici se la notizia fosse vera e, visto che non lo era, non abbia diffuso un’immediata smentita, con allegata protesta al cosiddetto governo afghano e annessa richiesta di restituire immediatamente i nostri volontari alle loro famiglie. Un vero ministro degli Esteri avrebbe poi tappato la bocca a suoi colleghi di partito e di governo, tipo l’acuto Maurizio Gasparri e il pacato Ignazio La Rissa, che anziché prendersela col regime di Kabul hanno attaccato Gino Strada, mettendo ulteriormente in pericolo gli ostaggi. La Rissa ha invitato il fondatore di Emergency a “prendere le distanze dai suoi collaboratori” arrestati, perché “può sempre succedere di avere accanto inconsapevolmente degli i n fi l t ra t i ” come “le Br nel Pci e i Nar nell’Msi”. E, con notevole consequenzialità logica, ha prima ammesso che “il governo italiano non è stato informato dell’o p e ra z i o n e ”, salvo poi aggiungere che, “se le autorità afghane avessero fatto un imbroglio contro Emergency, ci saremmo arrabbiati, anche se l’orientamento politico di Emergency è noto a tutti”. Ma come faceva, di grazia, il governo ad arrabbiarsi se non sapeva nulla? Domande che avrebbero un senso se l’Italia avesse una politica estera, cioè se avesse un governo, o almeno un ministro degli Esteri. Invece abbiamo Frattini Dry. Con seltz. Senza oliva.

La legge è uguale per gli altri

Martedì 13 aprile 2010 – Anno 2 – n° 112

La legge è uguale per gli altri

Ieri, a Catania, un impiegato regionale è finito in carcere per truffa allo Stato perché timbrava il cartellino in ufficio e poi se ne usciva per sbrigare le sue faccende private. I carabinieri l’hanno sorpreso in casa sua mentre riposava. Nelle stesse ore andava in scena al Tribunale di Milano l’ennesima replica della pièce “Un ometto in fuga”. I tre avvocati del premier, tutti parlamentari, cioè pagati da noi, hanno esibito due paginette firmate nientemeno che dal segretario della presidenza del Consiglio, in cui si spiega (si fa per dire) come e qualmente Mr. B. avrà da fare ininterrottamente, 24 ore su 24, sette giorni su sette, per i prossimi tre mesi e mezzo, fino al 21 luglio (dopo, i tribunali chiudono per ferie fino a metà settembre). In tempi normali, dinanzi a una lettera così indecente, il tribunale avrebbe disposto un’immediata perizia psichiatrica sul segretario della presidenza del Consiglio, nel tentativo di esplorare le gravi patologie che l’hanno indotto a mettere nero su bianco una così monumentale cazzata. In un paese normale, tipo gli Stati Uniti, se un avvocato si azzardasse a sostenerla, verrebbe incriminato su due piedi per oltraggio alla Corte e gli passerebbe la voglia di riprovarci (quando Bill Clinton provò a chiedere di essere esentato dal testimoniare sulle accuse di molestie della stagista Paula Jones, la Corte suprema rispose che, al massimo, poteva essere sentito alla Casa Bianca, non certo sottrarsi alla Giustizia). Siccome non viviamo in un paese e in tempi normali, è probabile che i giudici prendano per buona la cazzata e rinviino il processo Mediaset al 21 luglio, quando dovranno rinviarlo a metà settembre, quando riceveranno un’altra lettera piena di cazzate che chiederà un ulteriore rinvio di sei mesi, e così via per un totale di un anno e mezzo. Cioè fino a Natale del 2011, quando i giudici si sveglieranno e scopriranno che il premier è improcessabile per sempre: non si sa ancora se grazie a un lodo Alfano-bis riservato alle alte cariche dello Stato o al ripristino dell’immunità parlamentare per tutti i mandarini della Casta, anzi della Cosca. Tutto ciò è possibile grazie a una psico-legge, quella sul cosiddetto “legittimo impedimento”, festosamente firmata dal presidente Napolitano, presunto garante della Costituzione in cui è scolpito all’articolo 3 che “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” e all’articolo 101 che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Il pm Fabio De Pasquale, un ingenuo che si ostina a leggere e rileggere la Costituzione in cerca di qualcosa che giustifichi quel che sta accadendo, ha osservato che delle due l’una: o il legittimo impedimento consente ai giudici di verificare se sia umanamente possibile che il premier non possa comparire mai per un anno e mezzo in tribunale (e allora resta da capire, per esempio, che ci facesse l’altro giorno in una tenuta del Senese, dove pare stia per comprare l’ennesima villa) e, in caso contrario, di convocarlo per le udienze, magari concordando qualche data libera, compresi i sabati e le domeniche; oppure la nuova legge lo impedisce, nel qual caso è incostituzionale, perché rende i giudici soggetti non più alla legge, ma a due paginette firmate dal segretario di Palazzo Chigi. Sarebbe opportuno che fosse il capo dello Stato a spiegare all’impiegato di Catania perché deve restarsene in galera per aver disertato l’ufficio per qualche ora, mentre il suo presidente del Consiglio può andare in giro per i suoi porci comodi disertando i tribunali per 18 mesi. L’impiegato non può accampare legittimi impedimenti per assentarsi dall’ufficio, né per sottrarsi al processo. Il premier invece sì. Eppure sono due cittadini italiani “eguali di fronte alla legge”. Riuscirà Giorgio Napolitano a trovare le parole per spiegare questa singolare disparità di trattamento, oppure ha anche lui un legittimo impedimento?

Il bacio della morte

Domenica 11 aprile 2010 – Anno 2 – n° 111

Il bacio della morte

Giuliano Ferrara è stato avvistato l’altroieri a pranzo con Gianfranco Fini che, scrivono i giornali, “l’apprezza molto” e si fa consigliare da lui. Già l’idea di farsi consigliare da un impiegato del suo peggior nemico non pare particolarmente brillante. Se poi si tratta di Ferrara, la trovata è doppiamente suicida. Stiamo parlando del maggior collezionista di fiaschi della storia moderna: la sua scia è lastricata di cadaveri politici, anche se lui passa sempre per “molto intelligente”. Solo per motivi anagrafici non potè augurare buon viaggio ai passeggeri del Titanic, ma fu come se l’avesse fatto. Ci permettiamo pertanto di consigliare il presidente della Camera di tenersi a debita distanza, per evitare le schegge in caso di esplosione. Ogni volta che Ferrara esplode, il che accade a intervalli regolari sempre più ravvicinati, lui rimane illeso, ma tutt’intorno ogni forma di vita nel raggio di decine di chilometri si estingue per sempre. In gioventù Giuliano sposò la causa del comunismo: si sa com’è finita. Lui intanto si era già riaccasato nel Psi al fianco di Craxi. In breve tempo il più antico partito italiano fu accompagnato al cimitero, mentre Craxi, saggiamente consigliato di gridare al complotto anziché arrendersi e patteggiare, riparò in Tunisia inseguito dalle guardie. Nel frattempo il Platinette Barbuto era planato su Forza Italia. Berlusconi, ancora inesperto, lo nominò portavoce e ministro per i Rapporti col Parlamento. Mai, a memoria d’uomo, un governo ebbe peggiori rapporti col Parlamento, tant’è che il Cavaliere, in un attimo di sconforto, sbottò: “Mi servirebbe un portasilenzi”. Durò 7 mesi (non Ferrara: il governo). “Lascio la politica per sempre, non fa per me”, annunciò Ferrara. E fondò il Fog l i o , a spese di Veronica e dei contribuenti: un miracolo editoriale da 10 mila copie scarse, noto soprattutto per un “elogio di Previti” e per la strenua difesa del giudice Squillante (“un uomo probo”): il primo finì in galera, il secondo invece pure. Nel ‘97 Ferrara andò a dirigere Panora ma , ma dovette presto lasciarlo, prima che l’abbandonasse anche l’ultimo lettore. Tornò alla politica, candidato del Polo al Mugello contro Di Pietro. Un’ecatombe biblica: 16%, minimo storico mai toccato dal centrodestra. Il Molto Intelligente lasciò un’altra volta la politica e tornò al Foglio , dove sponsorizzò appassionatamente D’Alema e la Bicamerale, giusto in tempo per veder naufragare l’uno e l’altra. Berlusconi rinunciò ai suoi preziosi consigli, infatti stravinse le elezioni del 2001. Fu allora che il Platinette si gettò a corpo morto sulla scena internazionale per sostenere Bush e Blair impegnati nella mitica “guerra al terrorismo”, cioè all’Irak, con la scusa delle “armi di distrazione di massa”: il Foglio pubblicò diversi articoli con le prove della loro esistenza, ovviamente fasulle. Gli osservatori Onu, sul posto, non ne trovavano traccia alcuna, ma lui le vedeva a occhio nudo della sua terrazza romana. Quando gli americani entrarono a Baghdad a bordo di Ferrara, lui azzardò: “In Irak si vince facile”. Infatti. Due anni fa sposò la causa di Sarkozy e quest’ultimo non sapeva cosa stava per capitargli: l’ha scoperto dopo la recente disfatta elettorale. Frattanto Ferrara, rientrato sul suolo patrio, patrocinava la candidatura di D’Alema al Quirinale (per la gioia di Napolitano) e di Rutelli al Campidoglio (per la gioia di Alemanno), lasciava Otto e mezzo (raddoppiandone gli ascolti), lanciava nel firmamento politico Michela Vittoria Brambilla (con gli esiti a tutti noti), sosteneva Veltroni nell’inciucio col Cavaliere (segnando la prematura fine politica di Veltroni), puntava tutto su Sarah Palin contro Obama (no comment), fondava la Lista No Aborto (raccogliendo più uova in faccia che voti). L’ultimo bacio della morte è stato per Ratzinger: infatti la Chiesa vive la peggior crisi in duemila anni e il Vaticano organizza tornei di rosari per strappare almeno un attacco del Fog l i o . Ora Ferrara ci riprova con Fini. Presidente, sia gentile, lasci perdere: ci serve vivo, nei prossimi anni.

Amici miei atto IV

Sabato 10 aprile 2010 – Anno 2 – n° 110

Amici miei atto IV

La notizia non è che il ministro Roberto Calderoli sia salito al Quirinale. E’ che l’abbiano fatto entrare. Il capo dello Stato ha addirittura ascoltato “la sua esposizione degli orientamenti generali del governo in materia di riforme” e ha ricevuto dalle sue mani “una prima bozza di lavoro”. Berlusconi è caduto dalle nuvole e ha derubricato la cosa come una “i n i z i a t i va personale” del rubicondo ministro. In realtà si trattava di uno dei celebri scherzi di Calderoli, per gli amici “Pota ” (da non confondere con Cota e con la Trota). Lo stesso che chiese l’uscita dell’Italia dall’euro e iniziò a battere moneta padana in quel di Pontida, coniando il “calderòlo”. Lo stesso che sposò la sua prima moglie con rito celtico, alzando il calice di sidro in onore di Odino e Taranis. Lo stesso che marciò su Verona alla testa di un corteo contro il procuratore Papalia, “il più terrone che ci sia”, con tanto di bara. Da anni il noto odontoiatra bergamasco fa di tutto per denunciare la sua vera natura, ma viene inopinatamente scambiato per un padre costituente. In realtà è un simpatico buontempone da bar che non sfigurerebbe nel remake di “Amici Miei” (al posto del celebre Sassaroli, il Calderoli). Uno che, per tirar tardi la sera con gli amici, sarebbe disposto a inventarsi di tutto. Anche un vertice estivo in una baita del Cadore per riscrivere la Costituzione. Quando lo disse alla moglie (“Cara, esco un attimo a fare le riforme istituzionali”), la signora lo fece pedinare da uno specialista, ma alla fine scoprì che era tutto vero. Nell’allegra brigata il consorte aveva la funzione di portare i grappini. Il fatto è che lo prendono sempre sul serio anche contro la sua volontà. Nel 2004, quando lo fecero ministro delle Riforme istituzionali, dichiarò costernato al Corr iere: “Su di me non avrei scommesso una lira”. Non ci credeva nemmeno lui: di qui l’espressione perennemente esterrefatta, con occhio sgranato. Una sorta di parèsi nell’atto di domandare: “Io ministro? Ma siete sicuri?”. Da allora le provò tutte per convincere i colleghi che avevano sbagliato persona. Definì Igor Marini “meglio di Pico della Mirandola”. Chiamò gl’immigrati “bingo bongo” e li invitò a “tor nare nella giungla a parlare con le scimmie”. Propose, per le riforme, il “modello australiano”. Spiegò che “i culattoni meritano le fiamme dell’infer no”. Salutò l’elezione di Ratzinger con l’immortale “più che Benedetto XVI avrei preferito Crautus I” invocando “una Chiesa padana”. Lanciò l’idea di “castrare i pedofili con un colpo di cesoia”. Niente da fare, nessuno pensò di cacciarlo: a ogni pirlata seguiva ampio e articolato dibattito. A quel punto, à la guerre comme à la guerre, il burlone sfoderò l’arma segreta: una maglietta anti-Maometto al Tg1. Per quattro giorni non accadde nulla, poi le riprese fecero il giro del mondo arabo: tumulti, proteste, morti e feriti al consolato di Bengasi. A quel punto persino Berlusconi dovette privarsi del più moderato dei suoi ministri. Perché fosse definitivamente chiaro che lui è lì per sbaglio, annunciò che la sua riforma elettorale era “una p o rc a t a ”. Fu subito promosso ministro della Semplificazione legislativa: lo paghiamo perché non gli vengano più in mente nuove leggi e ne cancelli qualcuna, possibilmente sua. Lui, sempre per mettere gli altri sull’avviso, ha estratto il lanciafiamme bruciando una montagna di carte asserendo che erano “375 mila leggi i nu t i l i ”: se fosse vero, secondo calcoli di Gian Antonio Stella, il Parlamento italiano avrebbe dovuto lavorare “h 24” quattro giorni a settimana, compresi gli anni di guerra, dal 1861 a oggi, varando una media di 7,8 leggi inutili al giorno, più quelle utili. “Almeno ora – de v’essersi detto Calderoli – lo capiranno chi sono!”. Niente. Anzi ora ci casca pure il centrosinistra. Enrico Letta elogia il “metodo Calderoli per le riforme”. E Napolitano lo riceve al Quirinale per deliberare la sua “bozza di lavoro”. Pare che, per la forza dell’a bitudine, abbia tentato addirittura di firmargliela lì, su due piedi. Al che Pota ha dovuto confessare: “Lasci stare, presidente: è la lista della spesa”.

La resurrezione di Lazzarone

Venerdì 9 aprile 2010 – Anno 2 – n° 109

La resurrezione di Lazzarone


L'altro giorno una collega spagnola, ntervistandomi sul libro “Pa p i ” appena tradotto, mi ha posto una di quelle domande che possono venire in mente solo a una giornalista non italiana, cioè non mitridatizzata al peggio: “Voi italiani a Berlusconi perdonate tutto. Fate così anche con gli altri politici o solo con lui?”. Ho subito pensato alle tre-quattromila porcherie che sono emerse irrefutabilmente a carico di Berlusconi e ho provato a figurarmi che ne sarebbe di Prodi, Veltroni, Casini, Di Pietro, ma anche di Fini e perfino di Bossi se ne avessero fatta una sola, la più minuscola: giornali e tv li avrebbero già massacrati e sparati nell’iperuranio. Per dire: se avessero ospitato in casa un mafioso per due anni, accumulato miliardi di fondi neri all’estero, sgraffignato una casa editrice a un concorrente in seguito alla sentenza di un giudice corrotto con soldi loro da un loro avvocato, comprato un testimone perché mentisse e li salvasse da un paio di processi, frequentato prostitute poi candidate alle elezioni, raccomandato signorine alla Rai per sfuggire a ricatti, minacciato un’Autor ità indipendente perché chiuda programmi sgraditi, epurato Montanelli dal suo Giornale e Biagi, Luttazzi e Santoro dalla Rai, imposto al Parlamento 38 leggi ad personam per sistemare gli affaracci propri, violato la Costituzione a ogni respiro, insultato giudici, giornalisti, oppositori, elettori, Corte costituzionale, Europa e Onu, trasformato Palazzo Chigi in un lombrosario, collezionato figure di merda in ogni missione fuori dalla cinta daziaria, candidato la propria igienista dentale, baciato la mano a Gheddafi, leccato il culo a Putin e financo a Lukashenko, beatificato come eroe un mafioso sanguinario, cose così. La risposta è: no, siamo un popolo di bocca buona e di stomaco forte, ma quel che perdoniamo a lui non lo perdoniamo a nessun altro. A questo punto, siccome la giornalista non è italiana, è scattata la seconda domanda: “Pe rch é ? ”. Perché lui ha le tv e gli altri no. Perché lui ha i giornali e gli altri no. Difficilmente, con qualche tv e qualche giornale all’attivo, il sindaco di Bologna Flavio Delbono si sarebbe dimesso all’istante per una storiella di poche migliaia di euro senza nemmeno tentare di trasformarla in un complotto ordito dalle toghe azzurre contro un primo cittadino eletto dal popolo. Con tv e giornali dalla sua parte, nemmeno Bottino Craxi avrebbe preso la via di Hammamet. L’ha ammesso la figlia Stefania: “A Bettino gli italiani non hanno creduto, a Silvio sì”. Poco meno di un anno fa Berlusconi era politicamente una larva. Dopo le passerelle del Presidente Consolatore sui cadaveri de L’Aquila a favore di telecamera e il comizio del Presidente Partigiano col fazzoletto al collo il 25 aprile a Onna, il pover’uomo fu improvvisamente investito dagli strali di Veronica (“è un uomo malato, frequenta m i n o re n n i ”), dalle incaute interviste di Noemi (“da grande voglio fare la soubrette o la deputata, deciderà Pa p i ”), dalle foto di Zappadu sull’harem di Villa Certosa, dalle registrazioni di Patrizia D’Addario sui festini a Palazzo Grazioli e dalla sentenza della Cassazione su Mills che lo immortala come un corruttore incallito. Si sperava che l’opposizione ne approfittasse un filino e che almeno l’incubo di vederlo salire un giorno le scale del Quirinale per non uscirne più fosse definitivamente svanito. Invece, grazie al servilismo dei suoi impiegati sparsi per le tv e i giornali e alla cecità suicida dei diversamente concordi del Pd, è tutto dimenticato. Riecco dunque il ducetto più potente e protervo che pria, travestito da padre ricostituente per riprendere in ostaggio la Giustizia, l’Unità d’Italia e la Costituzione, spalleggiato da giureconsulti del calibro di Calderoli detto Pota e Renzo Bossi detto Trota. Intanto quel che resta del capo dello Stato gli firma l’ennesima legge incostituzionale, sennò lui gli mette il broncio. E il Pd attende ansioso un invito a tavola, senz’accorgersi che il suo ruolo non è di commensale, ma di pietanza.

Chi non firma è perduto

Giovedì 8 aprile 2010 – Anno 2 – n° 108

Chi non firma è perduto

Ieri Giorgio Napolitano ha firmato l’undicesima legge vergogna in quattro anni di presidenza della Repubblica (dopo l’indulto esteso ai colletti bianchi, il decreto Mastella per bruciare i dossier Telecom, l’ordinamento giudiziario Mastella-Castelli, la salva-Pollari, il lodo Alfano, il raddoppio dell’Iva per Sky, due pacchetti sicurezza con norme razziali anti-immigrati, lo scudo fiscale, il decreto salva-liste). L’ha fatto così, con nonchalance, senza nemmeno un’obiezioncina, una puntina di malessere, due righe per dire che questa è l’ultima volta. Infatti è sempre la penultima. Ha impiegato quasi un mese a digerirla, ma alla fine è andato tutto bene. Come spiega La Stampa in un articolo ispirato, aveva tempo fino a sabato, ma ha preferito “anticipare di qualche giorno per tenere l’attenzione ‘concentrata sulle ragioni’ della visita che compirà a Verona” oggi e domani: nientemeno che Vinitaly, la fiera dei vini. Chissà se va a bere per festeggiare o per dimenticare. Sempre secondo La Stampa, il Colle prevede che anche questa firma verrà deglutita senza nemmeno un ruttino dal Pd e pazienza per “le prevedibili proteste di dipietristi ed estrema s i n i s t ra ”. Gentaglia. Avevamo dunque ragione a temere che la mancata firma al ddl sul lavoro fosse un contentino ai critici (piuttosto sparuti) del Quirinale in vista della trionfale promulgazione del cosiddetto legittimo impedimento. Cioè della norma ad personam (la numero 38 dell’Era Berlusconiana) che consente al premier e ai suoi ministri di scampare legalmente ai processi senza il fastidio di doversi inventare di volta in volta una scusa. Il tutto per 18 mesi, in attesa della soluzione finale: il lodo Alfano-bis o il ritorno all’impunità parlamentare. Ormai, fra il presidente e il premier, s’è instaurato un gioco di squadra ben collaudato: il primo può permettersi qualche scherzetto sulle leggi vergogna che non interessano il secondo, ma su quelle che lo riguardano non si scherza: si firmano e basta. Ogni dibattito sull’incostituzionalità di questa o quella norma è superato: respingendo il ddl sul lavoro per l’“estrema eterogeneità, complessità e problematicità di alcune disposizioni”, Napolitano ha confermato che l’art. 74 della Costituzione gli consente di rimandare indietro le leggi che non condivide, a prescindere dalla loro incostituzionalità. Da ieri sappiamo che il legittimo impedimento gli è piaciuto un sacco. E pazienza se è manifestamente incostituzionale. Non lo diciamo noi: l’ha detto la Consulta in due sentenze del 2001 e del 2008. La prima, a proposito degli impedimenti parlamentari accampati da Previti nei processi “toghe sporche”, stabilì che “l’esigenza di celebrare i processi in tempi ragionevoli e quella di assicurare un corretto assolvimento dei compiti istituzionali hanno pari rango costituzionale” e spetta al giudice, non certo all’imputato, assicurare un giusto bilanciamento fra le due istanze. La seconda, bocciando il lodo Alfano, definiva “irragionevole e sproporzionata” la “presunzione legale assoluta di legittimo impedimento” dovuta esclusivamente dalla carica ricoperta: gli impedimenti valgono “solo per lo stretto necessar io”, “senza meccanismi automatici e generali”, tantopiù che la deroga al principio d’eguaglianza era imposta con legge ordinaria. Inoltre, in barba al precetto costituzionale che vuole i giudici “soggetti soltanto alla legge”, il legittimo impedimento li assoggetta alle circolari di un funzionario di Palazzo Chigi che comunicherà insindacabilmente ai tribunali, di sei mesi in sei mesi, l’impossibilità del premier e dei ministri a comparire (il che fa prevedere che presto Bertolaso e Cosentino diverranno ministri). Lo stesso difensore di Berlusconi, on. avv. Piero Longo, ha ammesso che “il legittimo impedimento finirà certamente davanti alla Corte”. Dunque lo sa anche il presidente di aver firmato una legge incostituzionale. Dunque siamo autorizzati a chiamarla “legge Berlusconi-Napolitano” e a non sentirci più rappresentati dal presidente della Repubblica dei Partiti.

Roma ladrona la Lega ti perdona

Mercoledì 7 aprile 2010 – Anno 2 – n° 107

Roma ladrona la Lega ti perdona

A dimostrazione del fatto che di questo centrodestra non si riesce a pensare mai abbastanza male, perché la realtà supera sempre la più fervida fantasia, devo correggere la mia previsione di ieri: là dove scrivevo che finiani e leghisti potrebbero appoggiare una seria proposta di legge anticorruzione. Levate pure i leghisti, ormai definitivamente perduti al seguito di Roma ladrona. In una psichedelica intervista al Corriere, il ministro dell’Interno Bobo Maroni ha infilato una serie di strafalcioni e corbellerie sulla giustizia da mettere in seria discussione la sua laurea in Legge: il noto giureconsulto varesino vuole abolire l’obbligatori età dell’azione penale per consentire ai magistrati di concentrarsi sui “reati che davvero provocano allarme sociale”. Già immaginiamo quali: scippi, piccolo spaccio, immigrazione clandestina, cose così (la resistenza a pubblico ufficiale è ovviamente esclusa, visto che Maroni è stato condannato in via definitiva per averla commessa avendo malmenato alcuni poliziotti, infatti fa il ministro della Polizia). Nemmeno una sillaba sul reato più socialmente allarmante, la corruzione, che secondo la Banca Mondiale e la Corte dei Conti si mangia ogni anno 50-60 miliardi di euro. Quanti scippatori devono mettersi all’opera, e quante borsette devono rubare in media al giorno, per racimolare un bottino equivalente? Non resta che sperare nei finiani, sempre a patto che qualcuno dall’opposizione si svegli e prenda l’iniziativa di presentare un testo. Non c’è bisogno di grandi sforzi di fantasia. Basta copiare dalla miriade di proposte e disegni di legge giacenti in Parlamento e ivi insabbiati da anni (ce n’è persino uno firmato da Mastella, che non è affatto male). Nei prossimi giorni Il Fatto metterà qualche idea semplice semplice a disposizione di eventuali oppositori disposti a raccoglierla e a tradurla in un testo. A cominciare da quella avanzata nel settembre del 1994, in piena Tangentopoli, dal pool Mani Pulite e da un gruppo di giuristi e docenti universitari (fra i quali l’attuale presidente dell’Unione Camere penali, Oreste Dominioni). Era articolata in tre punti. Primo: non punibilità per il corruttore o il corrotto che va spontaneamente a confessare e a denunciare i complici, “prima che la notizia di reato sia stata iscritta a suo nome e comunque entro 3 mesi dalla commissione del fatto”. Sempreché restituisca il maltolto fino all’ultima lira. E con la sanzione automatica della decadenza e dell’i n t e rd i z i o n e dai pubblici uffici. In pratica, si rompe il vincolo di omertà fra corruttore e corrotto e si innesca una corsa a chi arriva prima a denunciare se stesso e l’altro per guadagnarsi l’impunità. L’obiettivo è quello di far emergere gran parte del sommerso di Tangentopoli, evitando ricatti e veleni. Secondo: i reati di corruzione e concussione diventano uno solo: è vietato offrire e dare soldi a un pubblico funzionario, non importa se costretti o spontaneamente, né in cambio di quale favore lecito o illecito. Terzo: linea dura con chi arriva fuori tempo massimo, o non confessa tutto, o viene colto con le mani nel sacco; custodia cautelare obbligatoria per corrotti e corruttori, come per i mafiosi, con pene che salgono da un minimo di 4 a un massimo di 12 anni per il pubblico ufficiale corrotto e da 3 a 8 per il corruttore privato (nessuna speranza di prescrizione). Sedici anni fa la proposta suscitò reazioni entusiastiche da An e dalla Lega. Ignazio La Russa stuzzicò i forzisti perplessi: “Che il progetto Di Pietro potesse essere sconosciuto a Forza Italia mi sembra poco credibile, anzi resto convinto che i vertici ne fossero informati: vi han collaborato alcuni avvocati vicini a loro...” (per esempio Dominioni, allora difensore di Berlusconi). Maroni e Tremonti incontrarono i pm promotori e alla fine il primo parlò di “iniziativa interessante da discutere fra magistrati e governo”. Che cos’è cambiato da allora a oggi, a parte il fatto che allora Tangentopoli ci costava 6-7 miliardi l’anno e oggi dieci volte tanto?

L’inciucio che vogliamo

Martedì 6 aprile 2010 – Anno 2 – n° 106

L’inciucio che vogliamo

Qualche mese fa, intervistato da Franco Marcoaldi su Repubblica, il grande intellettuale mitteleuropeo George Steiner denunciava: “Abbiamo perso l’arte di dire ‘no’. No alla brutalità della politica, no alla follia delle ingiustizie economiche che ci circondano, no all’invasione della burocrazia nella nostra vita. No all’idea che si possano accettare come normali le guerre, la fame, la schiavitù infantile. C’è un bisogno enorme di tornare a pronunciare quella parola. E invece ne siamo incapaci. Sono sgomento di fronte all’acquiescenza di tante persone per bene, trasformate in campioni di fatalismo, quasi che protestare fosse diventato inutile e imbarazzante. Ma le personalità più grandi del nostro tempo, i Nelson Mandela, i Vaclav Havel, non hanno mai provato questo imbarazzo. Purtroppo la famiglia, la scuola e il sistema mediatico inoculano sistematicamente tale virus. Ci predispongono al più totale conformismo. E’ fondamentale riabituarsi alla resistenza contro i falsi idoli del nostro tempo. A partire da quello principale: il fascismo del denaro… Il potere politico è nelle sue mani. Voi in Italia ne sapete qualcosa…”. Ecco:il fascismo del denaro che ci comanda da almeno 16 anni ha convinto l’opposizione che dire no è disdicevole, disfattista, passatista, e peggio ancora è dirlo in piazza. E’ cosa buona e giusta invece dire sì, mettersi d’accordo, sedersi attorno a un tavolo per scrivere “riforme condivise”. Quali, è secondario. L’importante è sedersi al tavolo, anzi a tavola. Infatti, dopo qualche settimana di polemiche di maniera fra maggioranza e opposizione, strumentali a trascinare ancora qualche elettore alle urne, si ricomincia. Cicchitto chiama a raccolta Pdl, Lega, Udc e Pd per riformare (cioè devastare) la Costituzione, e lo sventurato, cioè il Pd, risponde. Lo fa per bocca di tale Giorgio Merlo, tutto giulivo per la profferta di uno strapuntino al famoso “t avo l o ” gentilmente offerto al suo partito. Purchè – precisa – il Pd possa “e m e n d a re ” la proposta della maggioranza. A questo si è ridotta la cosiddetta opposizione: a emendare le porcherie di questa losca destra. Dire no è fuori discussione: “Sarebbe irresponsabile – spiega il Merlo - offrire giustificazioni a chi vuole bloccare tutto, gridare al 'golpe' e alla 'dittatura'. Il Pd, com'è noto, non appartiene a e questa canea”. E bravo Merlo. Conosciamo l’obiezione dei presunti “riformisti”: le regole del gioco si scrivono insieme,altrimenti la maggioranza ha l’alibi per fare da sola. E proprio qui sta il punto: senza i voti del Pd, il Pdl non può cambiare la Costituzione senza passare per il referendum popolare (senza quorum). Dunque, una volta tanto, il Pd ha diritto di veto. Perché allora non prendere l’iniziativa e, dicendo no a boiate tipo il presidenzialismo e la controriforma della giustizia, sfidare Pdl e Lega a dire sì a una seria legge anticorruzione? Sulla carta, un mese fa, erano tutti d’accordo, poi non se ne seppe più nulla. Ora Berlusconi, per motivi autobiografici, non potrà che dire no, ma leghisti e finiani dovrebbero dire sì. Così Pd e Idv insieme potrebbero regalare al Paese una riforma davvero necessaria e, al contempo, spaccare il centrodestra. Basta copiare il “patto anticorruzione” appena siglato a Madrid dal governo Zapatero e dall’opposizione di centrodestra dopo l'ultima ondata di scandali. Anzichè attaccare i giudici e abolire le intercettazioni, in Spagna se la prendono col sistema del malaffare e corrono ai ripari con misure concrete: sostituzione dei politici con tecnici nelle commissioni urbanistiche, divieto assoluto di accettare regali, pubblicazione delle retribuzioni e delle proprietà di assessori e pubblici funzionari, sospensione da ogni incarico dei dirigenti finiti in carcere per tangenti. In Italia c’è da fare ben di più, visto che negli ultimi 15 anni la classe politica ha smantellato ogni difesa immunitaria contro Tangentopoli. Nei prossimi giorni Il Fatto proverà a suggerire qualche mossa semplice e concreta. Semprechè, s’intende, Pd e Idv siano interessati all’articolo.

Pietrasanta, che bel nome

Domenica 4 aprile 2010 – Anno 2 – n° 105

Pietrasanta, che bel nome

Prendo in prestito questa bella storia da un messaggio di Sandra Bonsanti, giornalista e amica, infaticabile presidente di Libertà e Giustizia. Racconta di Sabrina e Jacopo, due giovani di Pietrasanta (Lucca) che quattro anni fa frequentarono a Pavia la scuola di formazione politica di LeG. Arrivavano dalla città toscana passata alla storia per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema e per gli studi dei grandi scultori del marmo. Da tempo immemorabile Pietrasanta è governata da un centrodestra che, ove possibile, è ancor più inquinato e malfamato della sua media nazionale. Nel 2006 finì in carcere il sindaco Massimo Mallegni, amico di Marcello Pera e dunque vicecoordinatore regionale di Forza Italia, per associazione per delinquere, truffa, corruzione, estorsione, abuso d’ufficio, violenza, maltrattamenti, falso e voto di scambio: i giudici lo accusavano di 51 presunti episodi delittuosi, un primato europeo. Pare che nelle telefonate intercettate, il primo cittadino minacciasse i vigili urbani che indagavano su di lui in perfetto dolce stil novo: “Agli altri gli faccio il culo senza dirglielo, a lei glielo dico”, “Gli facciamo passare la voglia di fare il vigile”, “Vi agguanto uno alla volta”, “Ora lo purghiamo bene”. Persino Denis Verdini invitò il partito a “cacciare le mele marce”. Qualcuno lo corresse: “Ma anche le Pere”. Naturalmente Mallegni restò sindaco a pie’ fermo, anche dopo il rinvio a giudizio (per alcuni episodi fu prosciolto, per altri è ancora imputato). Ora che, dopo due mandati, ha dovuto cedere il passo, s’è ricandidato come capolista Pdl al consiglio comunale e ha tappezzato la città di manifesti con la foto che lo ritrae nel giorno del suo arresto con le manette ai polsi. Come a dire: sono un ex galeotto, mica uno qualunque, dunque votatemi. Roba che nemmeno Cetto La Qualunque. Di questa e di altre vergogne Sabrina e Jacopo non si davano pace. Racconta la Bonsanti: “Manifestavano contro la corruzione, scrivevano, denunciavano. Poi hanno avuto un’idea: e se la politica potesse essere diversa da quella che ci appare ogni giorno, luogo eccelso di privilegi, potere, risse, distanza dai cittadini, interessi personali, e, magari, anche illegali? Se potesse essere veramente la mèta delle nostre passioni civili, del nostro impegno, il campus per le nostre idee? Se fosse possibile costruire a Pietrasanta, la piccola Atene’, un laboratorio di buona politica? Ci hanno provato, non da soli, ovviamente”. Come? Hanno organizzato elezioni primarie in vista delle comunali, primarie “ve re ” e non taroccate dalle segreterie dei partiti, sostenendo un candidato onesto e giovane, che ha perso per soli 200 voti contro un bravo pediatra stimato in città, Domenico Lombardi. Una volta sconfitti alle primarie, han sostenuto Lombardi con una campagna elettorale improntata alla trasparenza e al rinnovamento, promettendo un regolamento urbanistico che riporti un po’ d’ordine nella giungla del decennale abusivismo. “Hanno aperto la lista – prosegue Sandra - a tutti gli oppositori (Idv, pensionati, verdi, sinistra ecc.), hanno subìto le angherie pseudomafiose di chi cercava di negare (a suon di diffide) persino gli spazi elettorali. Lombardi ha preso il 47% e i suoi antagonisti il 19 e il 28. L’11 aprile si giocano la partita definitiva”. La morale di Sandra è anche la nostra: “Non è scritto da nessuna parte che il centrosinistra debba per forza perdere. Il disastro non è un destino che ci è stato cucito addosso. Quando sono andata con altri amici a dare una mano a Pietrasanta, ho detto loro che li invidiavo: avvertivo la passione di chi sente che sta per scrollarsi di dosso una cappa insopportabile. Il calore di una battaglia in corso, la voglia di ricominciare a vivere e sognare. Un senso di fratellanza anche fra coloro che prima non erano insieme. La piccola Italia dei comuni, là dove anche il Pd sa scegliere e muoversi, esiste, c’è, la conosciamo troppo poco, è fatta di gente come noi”. Buona Pasqua, Sabrina e Jacopo. Buona Pasqua, Pietrasanta.

Angelino papalino

Sabato 3 aprile 2010 – Anno 2 – n° 104

Angelino papalino

Agli studiosi dell’evoluzione segnaliamo quella di una specie tutta particolare: quella dei ministri della Giustizia dell’ultimo decennio. Da Castelli a Mastella ad Al Fano. Ogni volta si pensa di avere toccato il fondo, invece subito dopo ne viene uno peggio. A questo punto, immaginiamo con sgomento che cosa potrebbe arrivare dopo Angelino Jolie. Il pover ’uomo aveva appena subìto una lezione di diritto dal Csm, che gli aveva spiegato lo scopo e i limiti delle ispezioni ministeriali. Che non possono impicciarsi nelle indagini delle Procure, né punire i magistrati che indagano su chi non piace a lui. Anziché farsene una ragione e occuparsi dell’unico compito che gli spetta – garantire “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” (art. 110 della Costituzione) – l’implume giureconsulto agrigentino ne ha combinata un’altra delle sue: ha sguinzagliato i suoi ispettori alla Procura di Milano perché il procuratore aggiunto Pietro Forno, coordinatore dei pool reati sessuali, ha rilasciato nientemeno che un’intervista al Giornale, rivelando per giunta una cosa nota e stranota financo al Vaticano: la reticenza con cui, in tutti questi anni, il clero ha trattato il fenomeno della pedofilia all’ombra dei campanili. “Nei tanti anni in cui ho trattato l’argomento – ha dichiarato Forno, magistrato dichiaratamente cattolico – non mi è mai arrivata una sola denuncia né da parte dei vescovi né da parte dei singoli preti. Le indagini sono sempre partite da denunce dei familiari delle vittime che si rivolgono all’autorità giudiziaria dopo che si sono rivolti all’autorità religiosa, e questa non ha fatto assolutamente niente”. Ora si spera che gl’ispettori alfanidi trovino bel tempo nella scampagnata fuoriporta e possano godersi serenamente la Pasquetta in una bella trattoria della Padania coi tavoli a quadretti. Quanto al contenuto dell’ispezione, sfugge ai più. Che dovrebbero mai ispezionare questi signori? L’articolo del Giornale? Un’edicola a piacere? Il registratore del cronista che ha raccolto le dichiarazioni del magistrato? La lingua del procuratore? Casomai il Guardagingilli non lo sapesse, le interviste funzionano così: l’intervistatore fa le domande e l’intervistato risponde. Se poi qualcuno si sente diffamato dalle domande e/o dalle risposte, sporge denuncia e un giudice decide chi ha ragione. Nessuna legge vieta ai pm di rilasciare interviste (purché non svelino notizie d’indagine top secret) né prevede che, se l’intervista non piace al ministro della Giustizia, scatti l’ispezione. Ma tutto questo Angelino non lo sa. Così ieri ha sguinzagliato gl’ispettori dichiarando che Forno “ha accusato le gerarchie ecclesiastiche di coprire i sacerdoti responsabili di gravi fatti di pedofilia” (cosa mai detta dal pm: il che lascia supporre che, oltre a non saper fare il ministro, Al Fano non sappia neppure leggere) e che “tali dichiarazioni” presentano un “carattere potenzialmente diffamatorio”, oltre a configurare a carico di Forno una possibile “violazione dei doveri di correttezza, equilibrio e riserbo”. Resta da capire chi sia mai il diffamato, visto che Forno non ha fatto nomi, né poteva farne perché dice di non aver mai incontrato un prete o un vescovo in veste di denunciante. E resta pure da capire che diavolo c’entri il ministro della Giustizia. A meno che il pover ’uomo non abbia voluto mostrarsi più zelante dei vari Cota e Zaia al servizio del Vaticano. Nel qual caso però avrebbe drammaticamente sbagliato bersaglio, visto che proprio sulla pedofilia la Chiesa sta compiendo un’ampia autocritica. Non vorremmo, insomma, che Ratzinger inviasse un’ispezione di Guardie svizzere ad Angelino Jolie per pregarlo di non essere più papista del Papa. In ogni caso, se è vero che questo genio è l’erede designato del Banana, c’è di che essere ottimisti. Viene in mente la frase di un famoso scrittore americano: “Da ragazzo mi spiegarono che, in democrazia, chiunque può diventare presidente. Comincio a temere che sia vero”.

Tendenza zero

Venerdì 2 aprile 2010 – Anno 2 – n° 103

Tendenza zero


E' un periodo di buone notizie, ne arrivano a carrettate. Ieri per esempio il Pompiere della Sera informava che Veltroni e D’Alema, un trust di cervelli, hanno raggiunto un accordo. Per ritirarsi dalla vita politica? No, magari: per “aprire al p re s i d e n z i a l i s m o ”. Mentre nelle sezioni del Pd si registrano i primi caroselli di giubilo e perfino qualche improvvisato Carnevale di Rio, specie nell’apprendere che il partito “ha il dovere di mettersi in gioco” nell’ambito del “cammino di svolta da intraprendere per indicare soluzioni vere agli italiani” allo scopo di “avviare una riflessione politica seria” senza dimenticare la “vocazione maggioritaria”, “il profilo riformista” (utilissimo per le foto segnaletiche), “l’apertura al confronto” e l’“abbassamento dei toni”, passiamo ai dettagli, che sono impagabili: nella riunione del coordinamento del partito, anziché interrogarsi su quisquilie come la perdita di 2 milioni di voti rispetto alle ultime Regionali, i due Attila del Pd hanno convenuto che – dice Max – “dobbiamo riflettere sul presidenzialismo” perché “un partito come il nostro non può avere una proposta sulla riforma dello Stato” (la stessa di Berlusconi, ça va sans dire); e che – aggiunge Uòlter – “non si possono solo dire dei no al presidenzialismo”, ergo si può “andare oltre la bozza Violante” (la nota boiata che vuole rafforzare i poteri del premier, oggi così smunto ed emaciato). Poteva mancare l’illuminato parere di Andrea Orlando, il visopallido che fa il responsabile Giustizia? No che non poteva: egli si dice convinto che sul presidenzialismo “si debba andare avanti” p e rch é “noi siamo all’opposizione e non dettiamo l’agenda, se il Pdl propone il presidenzialismo dobbiamo a t t re z z a rc i ”. Dire di no per far mancare i due terzi necessari al Ducetto per riformare la Costituzione in Parlamento e poi dare battaglia nel referendum per salvare la Costituzione, pare brutto. L’opposizione non deve opporsi, non sia mai. Orlando però riconosce che gli elettori potrebbero non capire. Non potendo al momento abolirli, questo gigante del pensiero propone di rassicurarli affiancando al presidenzialismo “una proposta sul conflitto d’i n t e re s s i ” perché “con un capo dello Stato con più poteri eletto direttamente dal popolo diventerebbe indispensabile una legge che regoli la materia”. In effetti Berlusconi eletto presidente dal popolo con cinque o sei televisioni pare eccessivo persino al Pd: ecco, magari gliene levano una e la sostituiscono con Youdem. Sempre che Lui sia d’accordo, s’intende, visto che la maggioranza ce l’ha Lui. Insomma, l’opposizione è lucida e, soprattutto in buone mani. Peccato che, come osserva l’acuto Caldarola sul Riformatorio, sia condizionata da due giornali, Repubblica e – bontà sua – Il Fatto, che avrebbero addirittura “lanciato un’Opa sul Pd” (diversamente da lui, che scrive contemporaneamente sul Riformatorio e sul Giornale). Il popolare Caldarrosta implora dunque il Pd di “smettere di ascoltarli”, ignorare i loro “suggerimenti suicidi” e “smettere di farsi dirigere da c o s t o ro ”, perché “con questi giornali il centrosinistra non vincerà mai”. L’idea che i giornali servano a dare notizie, analisi e commenti, e non a far vincere o perdere le elezioni a questo o quello, neppure lo sfiora. Né l’arguto commentatore spiega quando mai il Pd avrebbe seguito un suggerimento del Fatto . Gli sfugge pure un trascurabile dettaglio: avendo appena sei mesi di vita, Il Fatto anche volendo non può aver provocato le leggendarie disfatte del centrosinistra dell’ultimo quindicennio. Anche perché il centrosinistra riesce benissimo a perdere da solo. Ora però una domanda sorge spontanea: vista l’inarrestabile emorragia di voti (calcolata in milioni) che affligge il Pd e la più ridotta emorragia di lettori (computata in unità, anzi in decimali) che colpisce il Riformatorio, quale dei due soggetti raggiungerà per primo lo zero assoluto?

Legittimo firmamento

Giovedì 1 aprile 2010 – Anno 2 – n° 102

Legittimo firmamento

Le leggi vergogna si dividono in due categorie: quelle che servono a B. e le altre. Riconoscerle è facilissimo: quelle che servono a B., cioè le più incostituzionali, Napolitano le firma all’istante; le altre, quelle un po’ meno incostituzionali, no. Così B. vince sempre e gl’italiani mai. Un anno fa il presidente anticipò addirittura al Consiglio dei ministri riunito d’urgenza che non avrebbe firmato il decreto contro Eluana, raro caso di legge vergogna che non riguardava B. Così il premier fece bella figura col Vaticano, il Quirinale fece bella figura con gli italiani, e la bottega di Arcore non subì danno alcuno. Ieri il capo dello Stato, a quattro anni dalla sua elezione, ha rispedito al mittente la sua prima legge: il ddl sul lavoro (Repubblica l’aveva anticipato il 15 marzo, subendo una furibonda e incredibile smentita del Quirinale). E non perché lo ritenga “palesemente incostituzionale”, come i corazzieri della penna sono soliti interpretare l’art. 74 della Costituzione per dar sempre ragione al presidente firmaiolo. Ma semplicemente perché non gli piace: parla di “estrema eterogeneità, complessità e problematicità di alcune disposizioni”. Dunque, come abbiamo sempre sostenuto, il Colle può respingere alle camere le leggi che non condivide. E, se non l’ha mai fatto fino a ieri, vuol dire che condivideva delizie come il mega-indulto esteso ai colletti bianchi (2006), il decreto Mastella per bruciare i dossier Telecom (2007), le leggi fiscale (2009) e il decreto salva-liste (2010). O almeno non le riteneva viziate da “p ro bl e m a t i c i t à ” alcuna. Il che è curioso, ma perfettamente legittimo. Purché non ci venga a raccontare che era obbligato a promulgarle perché “non manifestamente incostituzionali” o perché “se non le firmo la prima volta me le rimandano uguali e devo firmarle la seconda”. Ieri infatti il governo ha annunciato che “modificherà il ddl sul lavoro tenendo conto delle osservazioni del Quirinale”: prima di arrivare allo scontro frontale con Napolitano riscrivendo tale e quale una legge appena respinta, B. ci pensa due volte. Forse, se il presidente avesse respinto pure il lodo e/o lo scudo, oggi non avremmo un premier corruttore impunito né uno Stato che ricicla denaro sporco. A pensar male si fa peccato avesse dato un contentino ai critici respingendo una legge che non riguarda B., e ora si preparasse a promulgare tranquillamente quella molto più indecente che salva B. dai processi: il “legittimo impedimento” varato a metà marzo e ancora appeso al Quirinale causa elezioni. Perché questa non è solo una legge che può piacere o meno per motivi di eterogeneità, complessità e problematicità. E’ certamente e palesemente incostituzionale. Lo dicono presidenti emeriti della Consulta come Valerio Onida. Lo ammette l’onorevole difensore del premier Pietro Longo: “Il legittimo impedimento finisce alla Corte”. E l’ha già detto in due sentenze la Consulta. Nel 2001, pronunciandosi sugli impedimenti di Previti, affermò che “l’esigenza di celebrare i processi in tempi ragionevoli e quella di assicurare un corretto assolvimento dei compiti istituzionali hanno pari rango costituzionale” e spetta al giudice, non certo all’imputato, assicurare un giusto bilanciamento fra le due istanze. Nel 2008, fulminando il lodo, definì “irragionevole e sproporzionata” la “presunzione legale assoluta di legittimo impedimento” dovuta esclusivamente dalla carica ricoperta: gli impedimenti per le alte cariche valgono “solo per lo stretto necessario”, “senza alcun meccanismo automatico e generale”; e cassò la norma immunitaria fatta con legge ordinaria. Ora, il legittimo impedimento per il premier e i ministri è automatico per ben 18 mesi ed è stato imposto con legge ordinaria. Quindi ora Napolitano smentirà i malpensanti e, dopo la legge sul lavoro, boccerà a maggior ragione anche quello. O no?

In poche parole, un’altra Caporetto

Mercoledì 31 marzo 2010 – Anno 2 – n° 101

In poche parole, un’altra Caporetto


Mentre il Pdl di Menomalechesilvioc’è perde 8,5 punti in un anno e tocca il minimo storico, la Lega lo asfalta al nord e Fini può rivendicare i successi in Lazio e Calabria con i suoi Polverini e Scopelliti, soltanto il vertice del Pd poteva trasformare la débâcle berlusconiana in una Caporetto del centrosinistra fra l’altro, scambiata per una vittoria). Bersani, cioè D’Alema e i suoi boys (almeno quelli rimasti a piede libero), ce l’han messa tutta per perdere le elezioni più facili degli ultimi anni e, alla fine, possono dirsi soddisfatti. In Piemonte hanno candidato una signora arrogante e altezzosa, bypassando le primarie previste dallo statuto del Pd per evitare di dar lustro al più popolare Chiamparino e riuscendo nell’impresa di consegnare il Piemonte a tale Cota da Novara per solennizzare degnamente il 150° dell’Unità d’Italia. A Roma, la città del Papa, hanno subìto la candidatura dell’antipapista Bonino per mancanza di meglio (il meglio ce l’avevano, Zingaretti, ma l’hanno nascosto alla Provincia per evitare che, alla tenera età di 45 anni, prendesse troppo piede), poi l’han pure lasciata sola per tutta la campagna elettorale. In Campania, calpestando un’altra volta lo statuto, hanno sciorinato un signore che ha più processi che capelli in testa perché comunque era “un candidato forte”: infatti. In Calabria han ricicciato un giovin virgulto come Agazio Loiero, che quando ha perso come tutti prevedevano si è pure detto incredulo, quando gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio. Non contenti, questi professionisti del fiasco, questi perditori da Oscar le hanno provate tutte per fumarsi anche la Puglia, candidando un certo Boccia che perderebbe anche contro un paracarro, ma alla fine hanno dovuto arrendersi agli elettori inferociti e concedere le primarie, vinte immancabilmente dal candidato sbagliato, cioè giusto. Hanno inseguito il mitico “c e n t ro ” dell’Udc, praticamente un centrino da tavola all’uncinetto, perché “guai a perdere il voto moderato”. Infatti gli elettori sono corsi a votare quanto di meno moderato si possa immaginare: oltre a Vendola, i tre partiti che parlano chiaro e si fanno capire, cioè Lega, Cinque Stelle e Di Pietro. Altri, quasi uno su due, sono rimasti a casa o han votato bianco/nullo, curiosamente poco arrapati dai pigolii del “maggior partito dell’opposizione” e dal suo leader, quello che “vado al Festival di Sanremo per stare con la gente” e “in altre parole, un’altra Italia”. Se, col peggiore governo della storia dell’umanità, l’astensionismo penalizza più l’opposizione che la maggioranza, un motivo ci dovrà pur essere. L’aveva già individuato Nanni Moretti nel lontano febbraio 2002, quando in piazza Navona urlò davanti al Politburo centrosinistro “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Sono gli stessi che sfilano in tutti i salotti televisivi, spiegando che la Lega vince perché “radicata nel territorio” (lo dicono dal 1988, mentre si radicano nelle terrazze romane o si occupano di casi urgentissimi come la morte di Pasolini) e alzando il ditino contro Grillo, che “ci ha fatto perdere” e “non l’avevamo calcolato”. Sono tre anni che Beppe riempie le piazze e li sfida su rifiuti zero, differenziata, no agli inceneritori e ai Tav mortiferi, energie rinnovabili, rete, acqua pubblica, liste pulite, e loro lo trattano da fascistaqualunquistagiustizialista. Bastava annettersi qualcuna delle sua battaglie, sganciandosi dal partito Calce & Martello e dando un’occhiata a Obama, e lui nemmeno avrebbe presentato le liste. Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta. Ma quelli niente, encefalogramma piatto. Come dice Carlo Cipolla, diversamente dal mascalzone che danneggia gli altri per favorire se stesso, lo stupido danneggia sia gli altri sia se stesso. Ecco, ci siamo capiti. Ce n’è abbastanza per accompagnarli, con le buone o con le cattive, alle loro case (di riposo). Escano con le mani alzate e si arrendano. I loro elettori, ormai eroici ai limiti del martirio, gliene saranno eternamente grati.

Carriole sediziose

Martedì 30 marzo 2010 – Anno 2 – n° 100

Carriole sediziose

Mentre proseguono a tappeto le ricerche del noto terrorista latino Marco Fabio Quintiliano, latitante da 19 secoli dopo aver ispirato il Partito dell’Odio col suo invito a “odiare i mascalzoni” subito raccolto da Luttazzi e da due giovani grafici di Sky, la Digos ha inferto un altro duro colpo al terrorismo: il sequestro a L’Aquila di ben dieci carriole e la denuncia di un centinaio di terremotati sorpresi nientemeno che a rimuovere macerie dalle strade nel giorno delle elezioni. Il reato ipotizzato a carico dei facinorosi aquilani è la violazione della legge sul silenzio elettorale. L’ha comunicato il promotore della memorabile iniziativa, il prefetto Franco Gabrielli, già direttore del Sisde e amico intimo di Guido Bertolaso: “E’ evidente – ha detto Gabrielli dello smantellamento dei detriti – che si tratta di un evento di tipo politico e quindi, nel giorno del silenzio elettorale, non si poteva consentirne lo svolgimento. Per questo siamo stati costretti a far rispettare la legge con tutti i mezzi a disposizione”. Ben detto: quando ci vuole, ci vuole. Come si può consentire a un gruppo di cittadini, per giunta armati di pale e carriole e visibilmente travisati con mascherine bianche anti-polvere, di scendere in strada per liberarla dalle macerie che l’amico San Guido ha pensato bene di lasciare sul posto a un anno esatto dal terremoto? A furia di vedere quelle carriole, gli italiani avrebbero potuto addirittura dubitare del miracolo della Protezione civile. Non contenti – ha aggiunto Gabrielli, vibrante di sdegno – gli aquilani “hanno tenuto un’assemblea, anch’essa fuorilegge, dove hanno contestato la nostra azione, definendola intimidatoria”. E chissà mai quale legge eventualmente scampata al rogo di Calderoli proibisce ai cittadini di riunirsi in assemblea e di definire “intimidatoria” un’iniziativa intimidatoria di un prefetto e della Digos al seguito. Nelle stesse ore, il presidente del Consiglio violava platealmente per l’ennesima volta il silenzio elettorale, improvvisando il solito comizietto fuorilegge nel suo seggio, invitando a votare per lui e contro Di Pietro. L’aveva già fatto nel 1999, nel 2004 e nel 2006. Intanto i cosiddetti onorevoli Gasparri e La Russa associavano Di Pietro ai terroristi dei pacchi-bomba. Ma nessun prefetto s’è mai sognato di come nessun prefetto è mai intervenuto sui milioni di sms inviati nel 2006 da Palazzo Chigi per invitare gli italiani nel giorno del silenzio, a votare. Non contento delle 37 leggi ad personam che hanno legalizzato i suoi reati, il ducetto brianzolo ha creato un clima tale per cui le sue illegalità vengono bellamente ignorate dalle forze dell’ordine, mentre condotte assolutamente legittime, come contestare e criticare il governo, vengono criminalizzate e sanzionate senza che alcuna legge le proibisca. L’incredibile trattamento subìto dal vicequestore Genchi, sospeso tre volte in un anno dal capo della Polizia Antonio Manganelli per aver parlato troppo, mentre le decine di poliziotti violenti condannati per le sevizie del G8 di Genova restano tutti al loro posto, e in certi casi vengono addirittura promossi, è un altro segnale inquietante. Sappiamo bene che le forze dell’ordine sono popolate di decine di migliaia di fedeli servitori dello Stato che, malpagati e mortificati da continui tagli di organico e di risorse, seguitano a fare ogni giorno il proprio dovere. Ma quando gli ordini superiori stridono così clamorosamente con i princìpi di imparzialità e legalità, non resta che un’alternativa: o l’obbedienza a direttive ingiuste (dietro cui si confondono anche le minoranze deviate, ansiose di menare le mani) o l’obiezione di coscienza. Seguitare a far finta di nulla è sbagliato e pericoloso. Quando si manda la polizia a reprimere il dissenso, la democrazia se la passa maluccio. E chi trova normale quanto sta accadendo diventa complice del regime. Possibile che i partiti di opposizione non abbiano nulla da chiedere al ministro dell’Interno e al capo della Polizia?

Un tranquillo venerdì di regime

Domenica 28 marzo 2010 – Anno 2 – n° 99

Un tranquillo venerdì di regime

Ultime notizie dalla celebre democrazia del Bananistan. Venerdì pomeriggio, l’altroieri, Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio è atteso per le 14.30 negli studi di Sky, sulla via Salaria a Roma, per una lunga intervista in diretta a SkyTg24. Per strada, il solito spiegamento di uomini armati fino ai denti. Il corteo presidenziale, sobriamente formato da un furgoncino blindato, da tre auto e da una pattuglia motorizzata di carabinieri, attraversa il piazzale del palazzo murdochiano. Anche la vigilanza interna è mobilitata, casomai alle dipendenze del noto magnate bolscevico australiano si annidassero cellule sovversive. Infatti ne viene subito scoperta una, nel reparto grafici: sull’ampia vetrata dei loro uffici campeggia in bella (si fa per dire) vista un foglio bianco formato A4 (21 x 29 centimetri su una superficie di 4 metri per 4) con una scritta inequivocabile: una citazione dell’ultimo iscritto al Partito dell’Odio, tale Marco Fabio Quintiliano, classe 35 d.C., nativo di Calagurris Iulia Nasica (Spagna), che dai primi accertamenti non risulta schedato. La scritta recita testualmente (ci scusiamo con i minori eventualmente in lettura): “Odiare i mascalzoni è cosa nobile”. Trattasi della citazione recitata da un altro facinoroso, il noto Daniele Luttazzi, la sera precedente nella radunata sediziosa del Paladozza a Bologna. Alla parola “mascalzone”, il pensiero dei vigilantes corre immediatamente al premier. Pronta e scattante come non mai, la security Sky allerta la scorta presidenziale. Ed ecco due nerboruti agenti della Digos materializzarsi sul luogo del delitto. Sbarrano tutte le finestre che s’affacciano sul cortile, onde evitare sguardi indiscreti. Piombano dinanzi alla vetrata. Leggono la parola “mascalzone” e, anche per loro, l’associazione d’idee col presidente del Consiglio è automatica. Sequestrano il corpo del reato (il foglio A4 con l’orrenda scritta). Poi uno dei due, il più sveglio, si dirige verso il computer principale dell’ufficio, vi prende posto con fare minaccioso e inizia ad armeggiare sulla tastiera. Ma è ben presto costretto ad arrendersi dinanzi a un oggetto misterioso che inopinatamente sostituisce il tradizionale mouse: si chiama “tavoletta grafica”. Ai primi sintomi di un’ernia al cervello, l’agente intima a una ragazza seduta lì vicino di stampargli i file aperti di recente, nella certezza di smascherare immantinente gli autori del vile attentato cartaceo. Ma invano. Anche perché i due principali sospettati – peraltro rei confessi, in concorso con il Quintiliano di cui sopra - sono già stati tradotti all'ingresso dell’edificio. Qui altri agenti in assetto antisommossa chiedono loro i documenti per procedere all’identificazione e scortarli in questura. Soltanto il pronto intervento di un rappresentante legale dell’emittente ne scongiura il fermo. Ma la denuncia è scontata, il reato si troverà. Segue mail ufficiale dell’ufficio Risorse Umane dell’azienda, che rammenta a tutti i dipendenti quanto segue: “E’ legittimo avere opinioni politiche di qualunque tipo, ma non fare esternazioni nei relativi spazi”. Voci di corridoio giurano di aver udito gli agenti della Digos commentare che quanti lavorano a Sky sono tutti comunisti, come del resto il loro editore Murdoch, noto amico di Bush. Questa volta, contrariamente a quanto accaduto in occasione dei lanci di cavalletti e souvenir, la sicurezza presidenziale ha funzionato con perfetta efficienza e l’incolumità del premier è salva. Provvede poi lui a farsi del male da solo nell’intervista in studio, con le consuete litanie sul partito dell’amore e sul comunismo alle porte che mettono in fuga gli eventuali telespettatori all’ascolto, totalizzando alla fine un formidabile 0,3% di share (contro 2.5% di Raiperunanotte soltanto su Sky). Proseguono intanto, con posti di blocco e unità cinofile, le ricerche del capocellula, il succitato Quintiliano, resosi irreperibile.

Feltri e noi

Sabato 27 marzo 2010 – Anno 2 – n° 98

Feltri e noi

Che Vittorio Feltri l’abbia fatta grossa è fuor di dubbio: ha spacciato una lettera anonima sulla presunta omosessualità di Dino Boffo per un’informativa di polizia agli atti del processo all’ex direttore di Av v e n i re . Dunque la sanzione che gli ha inflitto l’Ordine dei giornalisti, sospendendolo per sei mesi dalla professione, è un atto dovuto. I sei mesi assorbono i due ai quali è stato pure condannato per aver seguitato a pubblicare gli articoli di Renato Farina, il giornalista-spia al soldo dei servizi segreti che a sua volta è stato radiato dall’Ordine e ha patteggiato 6 mesi di reclusione per favoreggiamento nel sequestro di Abu Omar, dunque è stato promosso deputato. Ma questa seconda sanzione, pur dovuta finché esiste l’O rd i n e , riguarda la burocrazia dei giornalisti e non i lettori (chi scrive è convinto dell’inutilità degli ordini professionali all’italiana, ma questo è un altro discorso). La prima invece può diventare un utile argomento di dibattito pubblico, ma a un patto: che Feltri non diventi l’unico capro espiatorio per una colpa – la pubblicazione di notizie false – che non può essergli addossata in esclusiva. Intendiamoci: anche se davvero la polizia, esorbitando dai suoi compiti istituzionali, avesse compilato un’informativa sui gusti sessuali di un cittadino, Il Giornale avrebbe dovuto cestinarla: non basta che una notizia sia contenuta in un atto ufficiale per essere pubblicata. I giornali non sono discariche in cui riversare di tutto. E lo stesso vale per le intercettazioni: se un giudice, sbagliando, inserisce fra quelle depositate particolari privi di rilevanza pubblica e lesivi della privacy di una persona, il giornalista non li deve pubblicare. E, se li pubblica, la colpa è anche sua, non solo del magistrato (perciò Il Fatto non ha riportato i nastri su Angelo Balducci e i suoi amichetti). L’idea che i giornali debbano pubblicare tutto, acriticamente, è folle. Eppure la condanna di Feltri lascia un retrogusto amarognolo. Siamo certi che basti una sanzione esemplare per salvare l’anima all’Ordine dei giornalisti? Sono anni, specie da quando il bipolarismo all’italiana ha ridotto la libertà di stampa a guerra per ande fra destra e sinistra, che si pubblicano notizie false su tv e giornali, e nessuno paga mai. La sanzione a Feltri segnala una svolta dell’Ordine? E’ un monito a tutti i falsari della penna che, d’ora in poi, non ce ne sarà più per nessuno? O è una tantum destinata a restare tale? Nel primo caso, l’Ordine potrebbe persino recuperare una ragione di esistere. Nel secondo, tanto vale annullare la condanna di Feltri e tirare innanzi. Qualcuno pagherà mai per avere raccontato che il primo governo Berlusconi cadde per l’invito a comparire sulle tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza (in realtà crollò per merito di Bossi) e che il secondo governo Prodi cadde a causa dell’indagine di De Magistris su Mastella (in realtà Mastella lo rovesciò ol pretesto dell’indagine di S. Maria Capua Vetere poi convalidata dai giudici di Napoli)? Qualcuno pagherà mai per aver convinto milioni d’italiani (anche lettori di giornali “p ro gre s s i s t i ” o “indipendenti”) che Andreotti fu assolto per mafia, mentre fu miracolato dalla prescrizione per il reato “commesso fino al 1980”? Scoprire che prescrizione non è assoluzione solo quando il Tg1 scodinzolino dà per assolto il prescritto Mills è troppo comodo. Prima di Mills sono stati gabellati per assolti, dunque innocenti perseguitati, i dirigenti prescritti della Juventus accusati di doping e il sei volte prescritto Berlusconi. E quand’è che Minzolini farà un editoriale per rettificare l’ultimo, in cui sosteneva di non essere indagato a Trani? Se, dopo Feltri, l’Ordine intende fare sul serio, benissimo: si scrivano poche regole chiare e comprensibili, che consentano a chi sbaglia in buona fede di rimediare al suo errore, e su chi non lo fa cali pure la mannaia dell’Ordine. In caso contrario, molto meglio procedere all’autoscioglimento di un ente inutile, anzi dannoso.

Peggio il ricattato

Venerdì 26 marzo 2010 – Anno 2 – n° 97

Peggio il ricattato

Nell’inchiesta di Milano sulla fuga di notizie della famigerata telefonata Fassino-Consorte, c’è tutta la tragicommedia della politica italiana. Il leader del centrosinistra, nel luglio 2005, confabula al telefono con un chiacchierato assicuratore, tifando smodatamente per una scalata bancaria illegale a cui dovrebbe essere non solo estraneo, ma contrario (invece alterna il “noi” e il “vo i ”, confondendo i Ds e l’Unipol, e non fa una piega quando Consorte gl’illustra i trucchi adottati per controllare la maggioranza di Bnl senza lanciare l’Opa obbligatoria per legge). Il leader del centrodestra, mentre tuona ogni due per tre contro le intercettazioni, riceve in casa sua per Natale il nastro con quella di Fassino e Consorte, ne coglie al volo la portata ricattatoria e sputtanatoria in vista della campagna elettorale e promette a chi gliel’ha donato “l’eterna gratitudine della mia famiglia”. Una settimana dopo Il Giornale della sua famiglia riceve la bobina in pacco anonimo e la sbatte in prima pagina col titolo “A bb i a m o una banca?”. Fassino, che alla notizia di sue chiamate intercettate aveva detto di non aver nulla da temere e di pubblicarle pure, appena ne viene pubblicata una strilla al complotto: dimostrando così che aveva molto da temere, almeno sul piano politico-mediatico-morale, e che col suo tifo da stadio si era reso ricattabile e aveva messo in pericolo la sua coalizione. Anche senza prevedere che Consorte fosse ascoltato, nell’estate 2005 era arcinoto che il patron di Unipol si muoveva in festoso concerto con personaggini del calibro di Fiorani, Ricucci, Gnutti e Coppola, i furbetti del quartierino legati a filo doppio a Berlusconi. Senza contare che Consorte si avvaleva dei servigi del commercialista Zulli, socio di Tremonti. Insomma la destra sapeva benissimo ciò che faceva la sinistra. E se la sinistra non sapeva ciò che faceva la destra, peggio per lei: bastava leggere i giornali, che avevano ampiamente avvertito questi fresconi della compagnia con cui andavano a braccetto. L’uscita dell’intercettazione Fassino-Consorte sul Giornale a tre mesi dalle elezioni politiche costò all’Unione centinaia di migliaia di voti: a dicembre 2005 il Professore era avanti di 10 punti nei sondaggi sul Cavaliere; la notte del voto, il vantaggio si era assottigliato a uno zero virgola, anche grazie alle gesta telefoniche di Fassino e D’Alema. Ora si scopre che le bobine furono consegnate in anteprima al Cavaliere quand’erano ancora talmente segrete che la Procura non le aveva fatte neppure trascrivere. E finirono subito sul Giornale di Belpietro. Il quale fece benissimo a violare il segreto e a pubblicarle: i giornali sono lì apposta. Il fatto curioso è che oggi L i b e ro di Belpietro denunci con articoli-spia Antonio Massari, reo di aver raccontato sul Fatto le intercettazioni segrete di Trani, e ne invochi l’arresto. Che differenza c’è fra lo scoop del Fatto su Berlusconi e quello del Giornale su Fassino? Nessuna, a parte che Il Fatto pubblica tutte le notizie che trova, sulla destra e sulla sinistra. L i b e ro (si fa per dire) solo sulla sinistra. E a parte l’uso che di quegli scoop fanno i politici. Sul caso Ds-Unipol il Banana fece tutta la campagna elettorale del 2006, ben sapendo che gli scandali della sinistra danneggiano la sinistra, infatti recuperò 10 punti. Sul caso Agcom-Annozero la sinistra tace o balbetta, convinta che gli scandali di Berlusconi favoriscano Berlusconi. E sulla fuga di notizie del caso Unipol sia Bersani sia Fassino commentano: “Berlusconi non ama le intercettazioni legali, ma quelle illegali”. Solenne sciocchezza: erano legali anche quelle del caso Unipol. Fassino evoca la Telekom Serbia, che c’e n t ra come i cavoli a merenda: lì non c’erano intercettazioni, ma calunnie del truffatore Marini; nel caso Unipol c’erano le parole intercettate di Fassino, D’Alema e Latorre, che hanno irresponsabilmente esposto al discredito il centrosinistra, eppure sono ancora lì in prima fila, senza mai aver chiesto scusa. In un paese governato da ricattatori, chi si rende ricattabile è complice.

Zitto e mena

Giovedì 25 marzo 2010 – Anno 2 – n° 96

Zitto e mena

Lo so che è bizzarro, almeno in Italia. Ma chi scrive, fra guardie e ladri, ha sempre scelto le guardie, convinto che la magistratura e le forze dell’o rd i n e abbiano sempre ragione fino a prova contraria. Il guaio è che, sempre più spesso, dalle forze dell’o rd i n e giungono prove contrarie. I casi di detenuti o fermati massacrati di botte, morti in circostanze misteriose coperti di lividi, come i casi di contestatori prelevati e trascinati lontano da manifestazioni del centrodestra per aver osato contestare civilmente o sventolare cartelli critici, fanno temere che qualcosa di spiacevole stia accadendo fra i “tutori della legge”. E le reazioni prudenti, ai limiti della reticenza, dei vertici lasciano la sgradevole sensazione che non si tratti di casi isolati, delle solite mele marce. La sensazione diventa qualcosa di più concreto quando si legge che il capo della Polizia, Antonio Manganelli, vuole cacciare il vicequestore Gioacchino Genchi, esperto informatico al servizio di Procure e Tribunali, già consulente di Falcone e uomo-chiave nelle indagini sulle stragi del 1992. L’anno scorso Manganelli aveva sospeso Genchi per aver risposto su Facebook a un giornalista che gli dava del bugiardo; e l’aveva ri-sospeso per avere financo rilasciato un’intervista sul suo ruolo di consulente: condotte “lesive per il prestigio delle Istituzioni” e “nocive per l’immagine della Polizia”. Ora ha disposto la terza sospensione, che porterà automaticamente alla destituzione dopo 25 anni di onorato servizio (sempreché il Tar non accolga i ricorsi di Genchi), peraltro preannunciata dal settimanale berlusconiano Panora ma e sollecitata dall’apposito Gasparri (“Se il capo della Polizia Manganelli si avvalesse ancora di un personaggio del genere, la cosa sarebbe sconcertante e non priva di conseguenze…”). Senza dimenticare la violenta campagna scatenata da L i b e ro contro il pm romano Di Leo che ha affidato a Genchi una consulenza sulla truffa Fastweb-Di Girolamo, mentre la stessa Procura indaga su di lui (per iniziativa dall’indimenticabile Achille Toro). Stavolta il peccato mortale di Genchi è aver accettato di intervenire al congresso Idv, come se un poliziotto, per giunta sospeso, fosse un libero cittadino con libertà di parola. Curiosamente la sanzione gli è stata notificata un mese dopo il congresso, il 22 marzo, proprio un giorno prima che Genchi riprendesse servizio. E proprio mentre il Pdl cannoneggiava la Polizia per aver osato smentire il mirabolante dato sul milione di manifestanti in piazza San Giovanni: meglio non sollevare altre polemiche consentendo a Genchi di rientrare in servizio il 23 marzo. E pazienza se il vicequestore, per 25 anni, ha sempre ottenuto un punto in più del massimo nelle valutazioni di merito per le sue “eccezionali doti m o ra l i ” e le capacità operative. E pazienza se la Polizia non sospende nemmeno i suoi uomini condannati in primo grado per stupro e omicidio. E pazienza se tutti i poliziotti condannati in primo e/o secondo grado per le violenze e le torture alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001, o per le violenze dell’anno precedente sui no-global a Napoli sono rimasti in servizio, e in alcuni casi han fatto addirittura carriera. Vincenzo Canterini, condannato a 4 anni in primo grado per la mattanza alla Diaz, è stato promosso questore e ufficiale di collegamento Interpol a Bucarest. Michelangelo Fournier, condannato a 2 anni in primo grado, è al vertice della Direzione Centrale Antidroga. Alessandro Perugini, celebre per aver preso a calci in faccia un quindicenne, condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per le sevizie a Bolzaneto e a 2 anni e 3 mesi per arresti illegali, è divenuto capo del personale alla Questura di Genova e poi dirigente in quella di Alessandria. Evidentemente le loro condotte non erano “lesive per il prestigio delle Istituzioni” e la loro permanenza in servizio non è “nociva per l’immagine della Polizia”. Mica hanno scritto su Facebook o parlato a un congresso.

L’amorale della favola

L’amorale della favola

Mercoledì 24 marzo 2010 – Anno 2 – n° 95


Fra qualche anno – ha detto Piercamillo Davigo in un recente incontro a Milano – gli storici tenteranno vanamente di comprendere la nostra epoca. Alla fine penseranno a una malattia, a un’epidemia”. Poi sfoglieranno le collezioni del Pompiere della Sera e capiranno molte cose, così come gli studiosi del consenso mussoliniano non possono prescindere dal ruolo avuto nel Ventennio dal quotidiano di via Solferino. Ieri il Pompiere ospitava un editoriale di Piero Ostellino dal titolo ghiotto e promettente: “Una democrazia un po’malata”. Finalmente!, avrà esclamato qualche temerario prima di addentrarsi nella prosa ostellinica: finalmente una denuncia forte e vibrante sugli ennesimi colpi assestati alla democrazia italiana dal ducetto brianzolo con gli ennesimi insulti alla magistratura, con i giuramenti fascistoidi di piazza San Giovanni, con i decreti per cambiare le regole elettorali in piena campagna elettorale, con le minacce e gli ostracismi alla libera stampa, con le nuove leggi incostituzionali annunciate per il dopo-voto. Invece nulla di tutto questo. Per il cosiddetto liberale Ostellino, “il male oscuro della nostra democrazia è una ‘malattia dell’anima’ degli italiani”. La corruzione che ci costa 70 miliardi di euro l’anno? L’evasione fiscale che ce ne costa 150? Il debito pubblico, risalito con questo governo ai livelli paurosi del compianto (soprattutto da lui) Bottino Craxi, che ci costa 70 miliardi annui di interessi passivi? Macché: le intercettazioni della magistratura e la difesa che ne ha fatto Di Pietro, reo di aver ricordato un’ovvietà, e cioè che “chi non ha nulla da nascondere, non le deve temere”. Ecco: Ostellino trova “inquietante che lo dica un parlamentare della Repubblica nata dalla resistenza a n t i fa s c i s t a ”, perché “è la stessa sindrome di cui sono morte le democrazie, in Italia, in Spagna, in Germania, nel Ventesimo secolo: si violano le libertà individuali per il bene comune si finisce con uccidere (sic, ndr) la d e m o c ra z i a ”. Non sapevamo che Mussolini, Franco e Hitler fossero saliti al potere a causa delle intercettazioni, ma se lo dice Ostellino dev’essere senz’altro vero. Lui ne è talmente convinto da non argomentare minimamente l’assioma, tant’è che passa subito a paragonare l’Italia di oggi alla “Germania comunista” dove “i cittadini erano preoccupati, e indignati, dell’intrusione delle intercettazioni telefoniche nella loro vita privata da parte della polizia politica (la Stasi)”. Ma l’Italia è molto peggio, perché qui “gran parte degli intellettuali, dei media, della classe politica, dei cittadini comuni è entusiasta dell’idea di sapere che cosa pensano e dicono al telefono ‘gli altri’”, infischiandosene della “violazione della vita privata, nonché dei suoi diritti, anche dell’inquisito, per non parlare di chi” non lo è, “in nome di una non meglio precisata Etica pubblica” (concetto a lui del tutto ignoto). Dove si annidino queste orde d’intellettuali, giornalisti e politici innamorati delle intercettazioni lo sa solo lui. A fine delirio, mentre già risuonano le sirene dell’ambulanza, Ostellino cita una raccomandazione di Popper: “E’ arrogante tentare di portare il paradiso sulla terra”. Inutile domandare al nostro vice-Popper che diavolo c’entrino il paradiso in terra, la Stasi, il comunismo, il fascismo, il nazismo, il franchismo con le intercettazioni regolarmente previste dal Codice di procedura vigente dal 1989 e legittimamente ordinate dai giudici per scoprire tangenti, mafie, truffe, abusi di potere. Cioè reati. Ma la parola “re a t o ” non è contemplata dal vocabolario ostellinico: l’idea che le intercettazioni vengano disposte perché si commettono molti delitti è esclusa a priori. Né lo sfiora quella davvero bizzarra che la libera stampa debba dare le notizie, come fa spesso inopinatamente anche il Corriere nelle pagine interne. Poi però in prima pagina stigmatizza il brutto vizio di informare. Nei giorni scorsi Ostellino ha rivelato che un giorno imprecisato un politico imprecisato “chiese la mia testa”. Fortunatamente, dopo vane ricerche, non fu trovata.

Un uomo colto. Sul fatto

Martedì 23 marzo 2010 – Anno 2 – n° 94

Un uomo colto. Sul fatto.

L'acuto Pigi Battista ci spiega sul Pompiere della Sera come e qualmente la tv non abbia alcuna incidenza sul voto, visto che il centrodestra perde quando il centrosinistra controlla la Rai, e viceversa. Dimentica che il Banana controlla Mediaset sia quando vince sia quando perde, ma questi son dettagli. Ciò che soprattutto gli sfugge, a parte quell’altra quisquilia un tempo chiamata “conflitto d’interessi ”, è che il controllo delle tv serve al Banana per non far trapelare le notizie sgradite e confondere i contorni dei particolari più scomodi. Cioè per fare quel che fanno quotidianamente i Cerchiobattisti. Un esempio fra i tanti: il 2 marzo Marcello Dell’Utri annuncia il presunto ritrovamento di un capitolo inedito del romanzo “Petrolio ” di Pasolini e la sua imminente esibizione alla Mostra del Libro Antico di Milano. Per diffidare della fonte, basterebbe rammentare l’esaltazione dell’“eroe Mangano” o la bufala dei “diari di Mussolini” che il senatore-bibliofilo-pregiudicato va declamando in giro per l’Italia davanti a folle di nostalgici in delirio, anche se tutti gli storici li ritengono falsi. Invece tg e giornali abboccano voluttuosamente al “giallo del capitolo scomparso”, anzi – assicura Dell’Utri – “rubato dallo studio di Pasolini”: un testo “inquietante per l’Eni: parla di temi e problemi dell’Eni, con feroci accuse a Cefis, delle morti misteriose di Mattei, Pasolini e De Mauro. Materiale che scotta”. Una “scoperta clamorosa”, turibola Il Giornale. Sul Pompiere, Armando Torno, giornalista culturale vicino all’Opus Dei come Dell’Utri, incensa l’amico Marcello come “anima e cuore” della Mostra del Libro Antico e riporta altre sue mirabolanti anticipazioni: “Un privato, del quale non posso rivelare l’identità, ha messo a disposizione il capitolo inedito di ‘Petrolio ’. Sono 78 pagine su un totale di circa 200 e intitolate ‘Lampi sull’Eni’. Dopo una prima lettura posso dire che il capitolo parte dall’introvabile libro, subito misteriosamente sparito, firmato da Giorgio Steimetz ‘Questo è Cefis’. . .”. Dunque Dell’Utri l’ha avuto fra le mani per una prima lettura. Peccato che già 24 ore dopo ingrani la retromarcia: “La scoperta mi è stata annunciata da una persona che è sulle tracce del testo. Spero si faccia in tempo per la Mostra. Se il testo non dovesse materializzarsi, l’attendibilità verrebbe meno. Non ho ancora letto le carte, aspetto di vedere il dattiloscritto che mi è stato annunciato”. Dunque non solo non l’ha mai visto né letto lui, ma neppure il Mister X che l’avrebbe scovato. Il 9 marzo tutto sembra sfumare: “A questo punto credo che non faremo in tempo”. Ma due giorni dopo ecco la quarta versione, amorevolmente ripresa da Giornale e Libero : “Si tratta di sottili veline dattiloscritte, le ho avute in mano per alcuni minuti, ma ora non le abbiamo più in mano. Chi me le ha offerte si è spaventato per il clamore e si è tirato indietro, spero di riuscire a riagganciarlo. Ma il manoscritto esiste, l’ho visto e toccato anche se non l’ho sfogliato, pertanto non ne conosco il contenuto ”. Ma come: non aveva letto una sintesi con tanto di titolo, accuse feroci a Cefis e roba scottante sulle morti di Mattei, Pasolini e De Mauro? A questo punto, delle tre l’una. 1) Il capitolo è stato davvero rubato e il ladro o il ricettatore hanno pensato, chissà come mai, di rivolgersi proprio a Dell’Utri, nella certezza che non avrebbe chiamato i carabinieri. 2) Dell’Utri s’inventa di tutto pur di sviare l’attenzione dal suo processo a Palermo. 3) Dell’Utri è un noto collezionista di reati e, dopo la condanna definitiva per frode fiscale, quella prescritta per minacce gravi e quella in primo grado per mafia, tenta pure di accreditarsi come ricettatore. In tutti e tre i casi, in un paese dotato di un’informazione normale uno così non potrebbe più uscire di casa senza essere sommerso dai fischi, figurarsi entrare in Senato e concionare di libri antichi manco fosse Pico della Mirandola. In Italia, dove notoriamente la tv non conta nulla e l’informazione è libera, Dell’Utri passa per un tipo colto. Peraltro, sul fatto.